PREFAZIONE
Ho voluto tradurre in italiano corrente il testo di Senofonte traendolo da una edizione del 1790 stampata in Napoli dalla casa Donato Campo e contenente la traduzione dal greco del Giureconsulto Felice Testa, un testo di assai dura lettura, formato nel linguaggio curiale dell’epoca involuto e infiorettato.
Rispetto al Testa ho quindi fatto come scrisse il Foscolo di Vincenzo Monti e della sua Iliade:….Vincenzo Monti Cavaliero, gran traduttor dei traduttor d’Omero; ma tale lavoro è stato essenziale per la scorrevole comprensione dell’opera di Senofonte.
Ci informa il Testa: Senofonte nacque nell’ Attica in un castello chiamato Archeo, e fu figlio di un tale denominato Grillo. Visse circa l’anni del Mondo 3654 (del calendario ebraico) e morì in Corinto l’anno 92 di sua lodevole vita. Ebbe per maestro Socrate e per emulo Platone. Fu egli non solo gran Filosofo ed Oratore, ma eziandio valoroso Capitano, e militò sotto Ciro il minore; e fra le altre sue opere scrisse la di costui spedizione contro del fratello Artaserse Re di Persia, intrapresa tradotta in latino nell’anno 1523 da Romulo Amadeo. Si dilettò pure insieme con suoi figli dell’esercizio della caccia, come egli stesso ci fa sapere nel detto libro V de Cyri minoris expeditione.
Da fonti diverse si sa che Senofonte visse dal 430 al 355 A.C.
Il Cinegetico non è una grande opera, è una delle opere minori di Senofonte, ma serve a comprendere la ragione per cui gli antichi davano tanto valore alla caccia: la caccia imponeva un duro e continuo addestramento fisico, la caccia serviva, si direbbe oggi, a mantenersi in forma, pronti ad affrontare gli esercizi ed i disagi di guerra in maniera migliore degli uomini di studio, degli ignavi, dei pigri e degli oziosi dediti ai vizi.
Tale considerazione della caccia come metodo per fortificarsi ed indurirsi risale a prima di Senofonte e giunge alle soglie dei nostri tempi, quando i cacciatori ancora facevano chilometri a piedi inseguendo una lepre o la starna, o salendo all’alba alle poste delle palombe sui boschi montani lontani da casa.
La caccia per secoli fu ritenuta dai nobili un’arte obbligatoria, per la semplice ragione che nelle gerarchie sociali questa in caso di emergenza era la loro funzione, ed anche i Re la praticavano e la favorivano, per assegnare poi ai cacciatori le postazioni dei valorosi e più vicine a sé.
La caccia al cinghiale, sia con il dardo, che con la lancia o lo schidione, era molto pericolosa, e ci ricorda Senofonte che spesso i cani facevano una brutta fine, e a volte anche gli uomini: per affrontare la fera o il porco selvatico, come a volte il Testa chiama il cinghiale, occorreva sangue freddo, molto coraggio ed essere degli atleti, pronti e capaci a difendersi e a cavarsi fuori dai suoi assalti.
Inutile dire che oggi la caccia è diversa, andare in auto sul posto e sparare bulimicamente a tutto quello che passa in cielo è proprio di coloro che i veri cacciatori chiamano con disprezzo sparatori, mentre i costi e la burocrazia hanno decimato i veterani e gli esperti che s‘addentravano nei fossi tra i rovi a scacciare tordi e merli, e seguivano faticosamente con i cani la pratica del lepre sulle chioppe della terra appena lavorata: proprio come facevano i cacciatori di lepre di Senofonte, magari senza il fucile a tracolla.
La descrizione dei cani è puntuale, come meticolosa è la descrizione dei diversi modi di seguire e scovare la preda propria delle varie razze; ed il costume dei vari animali, e cioè il comportamento delle lepri, dei cervi e dei cinghiali nelle varie situazioni, è riferito con vera maestria.
Questa traduzione della traduzione è stata fatta per tutti gli appassionati di caccia che vogliono uscire dal presente per andare a viaggiare con la fantasia e l’immaginazione nei tempi passati, ed ha la funzione di non fare svanire nel nulla ciò che per secoli è stata una delle attività più praticate dall’uomo, sia per governare sé e la propria famiglia, sia per fortificarsi, e sia ancora per esercitarsi all’aperto tra le selve, le maggesi, i pascoli montani, i medicai di pianura, i campi oleati et vineati, e le rote dei fiumi.
Luciano Magnalbò
CAPO 1
La caccia con i cani fu certamente un’invenzione
degli Dei Apollo e Diana
La caccia con i cani fu una invenzione degli Dei Apollo e Diana e da loro fu donata a Chirone, ritenuto meritevole per il suo buon comportamento, il quale contento e felice la praticò.
Seguirono l’esempio di Chirone molti altri illustri uomini, maestri ed esperti in varie arti, quali Cefalo, Esculapio , Melanione, Nestore, Teseo, Ippolito, Ulisse , Menesteo, Diomede, Castore , Polluce , Macaone , Podalirio, Antiloco , Enea ed Achille, insigni eroi e cari agli Dei.
Tutti essi sono morti, ma non vi è da meravigliarsi in quanto morire è un debito verso la Natura.
Furono però degni di lode mentre erano in vita, godendo anche della gloria derivante da Chirone che di Giove fu fratello; furono Giove e Chirone figli di un solo Padre ma nacquero da Madri diverse, avendo la Ninfa Rea dato alla luce Giove e Najade Chirone, il quale morì dopo aver ammaestrato come ultimo dei suoi discepoli Achille, discepoli tutti da ammirarsi per gli studi sui cani, sulla caccia e su altre buone arti, e che fecero comparire il loro maestro come il più eccellente di ogni altro.
Cefalo fu rapito dalla dea Aurora da cui aveva avuto in dono il meraviglioso cane chiamato Lelape; Esculapio fu più favorito dagli Dei poiché ebbe il dono di richiamare in vita i defunti e di dare salute agli infermi meritandosi una gloria eterna ed un posto tra gli stessi Dei; Melanione tanto fu superiore ad ogni altro nella caccia, che a dispetto dei suoi rivali meritò le nozze di Atalanta nell’invidia dei più rispettabili eroi dei suoi tempi; Nestore fu tenuto in massimo conto dai Greci per la sua proverbiale virtù; Anfiarao godé di onori immortali come gli Dei per la gloria avuta militando contro i Tebani; Peleo meritò il desiderio degli Dei di farlo sposo della dea Teti e le nozze furono celebrate nell’ antro del suo maestro Chirone; Telamone divenne così famoso e grande che in una popolatissima Città gli fu concesso di scegliersi per moglie la donna che più gli fosse piaciuta e si maritò con Peribea, figlia di Alcatoe e nipote di Pelope, mentre dal Principe dei Greci ricevette la giovane Esione come dono militare; di Meleagro tutti conoscono la gloria e gli onori, mentre Teseo sconfisse da solo tutti i nemici della Grecia, e per i benefici recati alla patria è tutt’ora venerato ed ammirato; Ippolito, uomo modesto e pietoso, fu così caro alla Dea Diana da essere annoverato tra i Beati e in tal concetto morì; Palamede figlio del Re di Eubea, ucciso dai Greci per le false accuse di Ulisse, fu il più sapiente degli uomini del suo tempo, e la sua ingiusta morte fu vendicata dagli Dei con punizioni esemplari. Menesteo grazie al continuo esercizio della caccia divenne così resistente alla fatica che anche i primi tra i più valorosi eroi della Grecia, tranne il solo Nestore che ne sostenne il paragone, ammettono di non averlo potuto uguagliare. Ulisse e Diomede, famosi in tutto, furono i principali autori della caduta e della rovina di Troia portando massima gloria ai greci; Castore e Polluce divennero così illustri e famosi in tutta la Grecia grazie agli insegnamenti ricevuti dal saggio Chirone, che vennero ritenuti immortali e ricevettero adorazione come Dei. Macaone e Podalirio si resero insigni nella disciplina della caccia così come nelle arti liberali ed in quella della guerra. Enea dopo aver posto in salvo gli Dei Penati e il suo vecchio genitore Anchise si meritò l’appellativo di Pio, e nella caduta di Troia, che era la sua patria, godé del rispetto dei suoi stessi nemici. Antiloco morendo per il padre si conquistò tanta gloria che i Greci per onore lo soprannominarono il salvatore del padre. E finalmente Achille, educato dallo stesso Chirone, diede così chiara prova di sé che le sue lodi non hanno fine, sia nell’udirle che nel raccontarle.
Tutti questi Eroi si sono resi gloriosi e immortali per gli ammaestramenti ricevuti da Chirone, e furono sempre onorati ed ammirati dagli uomini dabbene, e odiati dai malvagi.
Tutta la Grecia e tutti i suoi re nei momenti di bisogno e di angustia li hanno riconosciuti come loro difensori e liberatori, e per mezzo di loro la Grecia riportò ogni vittoria contro i barbari, divenendo invincibile nei confronti dei medesimi. Sollecito, perciò, i giovani a praticare l’esercizio della caccia al pari di ogni altra scienza ed arte liberale, giacché coltivando questa disciplina divengano forti e valorosi non solo per la guerra, ma anche per tutte le altre azioni, e portati a ben operare e a ben parlare.
Appena, dunque, i giovani hanno terminato l’età puerile, la caccia deve essere il loro primo impiego ed esercizio, per poi attendere alle altre facoltà e dottrine che sembrano loro più proprie e necessarie, adoperando ogni diligenza per apprenderle nel modo migliore.
Né io posso omettere di far sapere di quali e quante cose debba esser fornito chiunque voglia dedicarsi all’esercizio della caccia, affinché i giovani possano essere ben istruiti nell’intraprenderlo.
CAPO II
Delle qualità che debbono essere presenti nella persona del cacciatore e del vario genere di reti
Chiunque voglia dedicarsi alla caccia è opportuno che sappia parlare la lingua greca e che abbia l’età di circa venti anni; deve essere di corpo robusto ed agile insieme, ed in più tollerante ed abile a superare facilmente qualunque fatica. Deve poi il cacciatore essere provvisto di varie specie di reti tessute con fortissimi lini, come usano i Cartaginesi e i Fasiani. Si distinguono esse con tre nomi dati dai Latini, che sono Sagena, Rete e Cassis. Quella che viene detta Sagena deve essere tessuta di nove fila, e grande cinque palmi; ed i lacci siano di undici braccia, con le funi di sopra e di sotto tutte lisce, cioè senza nodi; e ciò affinché il cacciatore possa facilmente camminare quando è ora di spandere o raccogliere la suddetta rete.
Le altre denominate Casses debbono intessute di dodici fila, ed esser grandi quanto basti ad occupare due, tre, quattro, e fino a cinque bastioni di palizzate.
E quelle propriamente chiamate Retia abbiano una lunghezza pari a dieci, venti, ed anche a più trenta bastioni purché siano sempre maneggevoli; queste reti non debbono avere più di trenta maglie, e la lunghezza dei lacci o delle corde deve essere uguale alla lunghezza delle reti.
Quelle denominate Casses abbiano nella sommità delle rotelle di legno e le altre dette Retia degli anelli; e le Sagene siano appoggiate e fissate alle corde passanti dentro le loro maglie; ma anche le Casses e le Retia però si debbono distendere per mezzo di corde che si attaccano rispettivamente alle rotelle o agli anelli.
Le astili, ossia le pertiche che servono per sostenere e distendere le Sagene, debbono essere di dieci braccia di altezza, ma è bene che ve ne siano altre più corte da situare nei luoghi e nei terreni ineguali: ma nei luoghi piani non si debbono usare quelle corte, dovendosi fare uso soltanto di pertiche della medesima altezza.
Quelle poi delle Casses debbono essere alte due braccia, mentre quelle per le Retia cinque piedi, tutte leggermente biforcate, e ben forti e piene in proporzione alla loro lunghezza.
Non vi è un numero fisso delle pertiche per l’uso delle dette reti, ma volendo servirsene di poche occorrerà più fatica per difenderle, fatica che si può evitare usandone molte.
Dovunque però si abbiano a distendere le reti, di qualunque delle tre sorti che siano, o tutte insieme, occorrono al cacciatore una coppia di cani ed accorti compagni armati di falci, ronche, accette ed altri strumenti e ferri da taglio per chiudere, con delle ramate a tal fine recise nelle selve, ogni varco o sentiero attraverso il quale la lepre o altro animale possa fuggire e salvarsi dalla rete.
CAPO III
Del vario genere dei cani
Due sono le sorti dei cani. Alcuni sono chiamati Castori e altri Volpini. I primi hanno preso il nome da Castore che si divertiva molto usandoli nella caccia; e gli altri, cioè i Volpini, sono così detti perché derivano dal congiungimento venereo dei cani con le volpi; ma oggi non esiste più tale specie originale, in quanto la loro natura si è mischiata e confusa con l’andare del tempo.
Varie e molte però sono le specie dei cani, che si distinguono con i nomi di Piccoli, Gripi (così detti dal naso aquilino che tengono) Allegri, Deformi e con gli occhi di Sorcio, Macilenti per natura, Deboli, Grandi, Inabili, Pusillanimi, Sciocchi e Mollipedi, cioè con i piedi teneri e molli. I Piccioli per lo più nel meglio della caccia si avviliscono e lasciano perdere. I Gripi sono incapaci di prendere la lepre. Gli Allegri e quelli con gli occhi di Sorcio sono di poca abilità. I brutti sono spiacevoli a vedersi. I Macilenti corrono volentieri ma si stancano presto. I Deboli, i Grassi e gli Inabili camminano, e guardano con gli occhi pieni di stanchezza; i Pusillanimi si sfiancano per niente e cercano riposo sotto l’ombra per fuggire dal sole che toglie loro le forze. Gli sciocchi rare volte trovano la lepre, e quelli con piedi molli, anche se di natura generosa non possono faticare a lungo per effetto del dolore che sentono sotto le piante.
Diverse poi sono le doti dei cani, e vario è il loro modo di cacciare, ossia di ricercare le lepri o gli altri animali selvaggi: alcuni cani quando hanno trovato le pedate della lepre o di altro animale, le seguono senza darne segno al cacciatore o muovendo la coda, o con altro particolare ed insolito atteggiamento.
Altri nel ritrovare le tracce della lepre o di altro animale lo segnalano tenendo ferma la coda e muovendo le orecchie.
Certi altri invece tengono ferme le orecchie e muovono la coda.
Vi sono pure certi cani che nel trovare le orme dell’animale le seguono con le orecchie basse restringendo ed increspando la fronte e tenendo ferma la coda.
Molti poi se ne trovano così inetti che nel ritrovare le tracce della lepre vanno saltando e correndo di qua e di là abbaiando, o lasciandola indietro o facendola scappare prima del tempo senza aspettare l’arrivo di altri cani.
Vi sono poi quelli che s’ imbrogliano e si confondono seguendo le pedate della lepre, e capita che quando le sono vicini non la avvertono e passano avanti perché non sanno distinguere le tracce lasciate di fresco, come quelle che l’animale imprime intorno al luogo dove vuole annidarsi, da quelle che forma e lascia la notte nel vagare per le selve e per i campi; né mancano quei cani che nel vedere la lepre prendono paura e non l’affrontano se non quando fugge.
Vi sono pure altri cani che nel cercare le pedate della lepre, e con il correre di fuga di luogo in luogo, portano pregiudizio alla bravura degli altri buoni cani, e danno ad intendere al cacciatore di aver ritrovato la preda, mentre così non è; l’unico risultato è che con loro correre e girovagare abbagliando prima degli altri cani impediscono a questi di segnalare dove in realtà si trova la lepre.
Ora i cani di questa fatta, anche se si possono qualificare volenterosi non sono però di alcun pregio; e non solo non sanno ben cacciare, ma se vanno a segno le fatiche degli altri essi spesso ne usurpano l’onore che non meritano; e molte volte quasi per invidia disturbano ed impediscono il lavoro degli altri, comunque senza saper distinguere quale sia l’entrata e quale sia l’uscita del covo dove la lepre fa il suo nido.
Vi sono anche dei cani così sciocchi che non sapendo ritrovare la lepre, né indovinare dove sia andata a giacere, si affaticano intorno alle sue tracce per quei luoghi dove essa ha mangiato; ma tutti questi cani che non sanno capire dove la lepre s’è annidata, e vanno solo correndo frettolosamente dietro le sue orme, non sono certamente cani di valore e di talento; dimostrano all’inizio un certo ardore ed una certa abilità mentre cominciano a cercare, ma poi si perdono d’animo contrariando e annoiando il cacciatore; e si trovano anche dei cani che facilmente si sfibrano e abbandonano la ricerca e le impronte, ed altri che si vedono andare errando come stolti per i sentieri, senza neppure obbedire ai fischi ed alla voce del padrone ; né mancano quei cani che presto si annoiano e smettono d’ inseguire la lepre per ritornare indietro dove hanno lasciato i cacciatori.
Altri cani poi nel ritrovare le tracce si mettono ad abbaiare, e quasi simulando vorrebbero dare ad intendere di avere l’animale sotto gli occhi e davanti al muso.
Molti ancora poi se ne ritrovano, che sebbene non abbiano tutti questi difetti, se ne vanno lo stesso correndo di qua e di là, e se sentono abbaiare un altro cane subito accorrono lasciando di punto in bianco la loro ricerca senza sapere ciò che fanno, sempre saltando e correndo incerti da un luogo all’altro.
Infine possono considerarsi di cattiva riuscita alcuni cani perché troppo sospettosi ed altri perché a corto di riflessi, altri perché simulatori ed invidiosi, e molti ancora perché gareggiano sconsideratamente fra loro a seguire le pedate d’una stessa lepre, per cui s’incontrano e si urtano a vicenda.
Tali vizi provengono per lo più dalla natura dei cani e dalla loro brutta indole, ma alcune volte dalla cattiva guida e condotta di colui che deve insegnare loro a cacciare e li addestra; e a causa di tali inconvenienti anche i più diligenti ed esperti cacciatori sono costretti ad abbandonare il nobile e necessario divertimento della caccia.
Ma ora vi dico, andando anche nei particolari, di quali forme e di quale fattezza debbono essere i cani.
Prima di tutto bisogna che siano grossi ma che abbiano la testa piccola; siano insieme aquilini, forti e muscolosi, con le vene della fronte visibili e con gli occhi elevati, superbi, neri e folgoranti; abbiano la fronte larga e grande, il pelo raso, le orecchie piccole e sottili, e con le parti di dietro gracili e scarne; il loro collo sia lungo e delicato dove si unisce con la spina, ma rotondo e facile nei movimenti.
Il loro petto deve essere largo, e che non macilento verso gli omeri, il cui intervallo non deve essere molto grande.
Le gambe di avanti siano corte, dritte, mobili, e forti di nervatura.
I fianchi debbono essere incavati, ed obliquamente uniti insieme, con muscoli né troppo teneri né troppo duri e nelle azioni partecipi l’uno dell’altro; ed abbiano i cani la spina dorsale carnosa e di media grandezza.
Le natiche debbono essere piccole, ma dalla parte di dietro carnose e proporzionate fra loro.
Il ventre in tutte le sue parti deve essere piccolo, la coda lunga, eretta e acuta, i piedi di dietro un poco più lunghi di quelli di avanti, rotondi e proporzionati.
E se i cani saranno come li ho descritti, certamente riusciranno forti, abili, celeri, allegri, e di ottima riuscita.
C A PO IV
Della investigazione dei cani, cioè del loro modo di cercare
I cani debbono essere veloci nel cercare, girare il capo ora di qua ed ora di là senza mai alzarlo da terra, e nel ritrovare le tracce della lepre debbono darne segno alzando e abbassando con contentezza le orecchie e girando rapidamente gli occhi guardandosi attorno; ed in bella e ripetuta maniera battersi nei lati la coda.
Tutte le specie poi, quante esse sono, debbono seguire le pedate della lepre, e quando le sono vicino debbono farlo comprendere al cacciatore, mostrando maggiore impegno nell’annusare le tracce mediante un camminare più veloce, con movimenti del capo, degli occhi e di tutto il corpo, tutti segnali di passione nella ricerca; e sempre guardando il punto dove credano si sia annidato l’animale, debbono saltare vivacemente avanti e dietro e ai lati, facendo chiaramente capire di essere vicini alla preda; né se la facciano sfuggire seguendola ovunque, abbaiando e correndole dietro a più non posso senza mai stancarsi; non ritornino poi dal cacciatore smettendo prima del tempo di seguire le orme della fuggitiva e timida lepre.
Tutti quei cani che possiedono le qualità e le dinamiche sopra descritte, e che si impegnano nella cerca, riescono sempre eccellenti, astuti e di buon carattere, e con i piedi forti e duri; e daranno il massimo se non si abbattono al caldo estivo, smettendo di cercare e di seguire le orme della lepre per i boschi e per le selve.
Saranno inoltre intelligenti e di odorato fino quei cani che ne sentono le tracce nei luoghi aperti e aridi, quando sta per tirare il vento di mezzogiorno; e avranno i piedi duri e forti se resistono alla fatica nei luoghi montuosi ed alpestri; e saranno di bell’aspetto, se il loro pelo è sottile, folto e gentile.
Ma il colore dei peli del cane non deve essere tutto fulvo, o tutto bianco o nero: se sono fatti a questa maniera non riusciranno generosi, ma disobbedienti e indipendenti.
Ora vi dico come debbono essere.
Se i cani sono di colore fulvo o nero dovranno essere tigrati di bianco, e se sono bianchi debbono essere tigrati di fulvo o di nero, o recare nel manto chiazze di pelo misto.
I peli che nascono intorno alla bocca, che appaiono come dei baffi, debbono essere lunghi, e forti e dritti quelli che nascono e sono nelle parti di fuori delle cosce, come pure quelli sulla spina dorsale e sulla punta della coda; e di media lunghezza quelli di tutte le altre parti del corpo.
I cani si debbono poi esercitare nei luoghi montuosi o nelle campagne aperte piuttosto che nelle ville e nei poderi privati poiché in quelle realtà non si trovano gli ostacoli che impediscono la corsa e il passaggio dei cani, come muri, sieponi e fossi posti a confine; ed è meglio che spesso siano portati in luoghi aspri, ancorché sia difficile trovarvi la lepre; e ciò perché mantengano i piedi forti e duri, e rimangano di corpo robusto e valido.
In tempo estivo i cani vanno portati a caccia fino a mezzogiorno; d’inverno dalla mattina alla sera; di autunno fino al primo pomeriggio; e di primavera finché dura la luce.
Queste sono le ore più opportune e più proprie di ognuna delle dette stagioni.
Seguire le orme delle lepri d’inverno è però più difficile e faticoso, perché nelle notti lunghe fanno tanto cammino, il che non accade d’estate per la brevità del buio; inoltre per effetto del freddo quel tenue e sottile odore che lascia sul suolo la lepre con le pedate è meno avvertibile dai cani, in quanto il freddo, restringendo con la sua forza il calore, trattiene in sé l’odore come racchiuso e protetto nel ghiaccio; avviene quindi che in tale stagione le narici dei cani s’intorpidiscono, e non possono ben distinguere e sentire quel sottile odore lasciato dai piedi della lepre prima che il sole si sia parecchio alzato sull’orizzonte e con il suo calore, e con l’avanzare del giorno, abbia sciolto il ghiaccio.
Questo tenue odore che lascia nelle pedate la lepre si disperde pure per quelle abbondanti rugiade che si formano in certi periodi dell’anno; e anche le piogge lo disperdono, specie quando cadono con i venti di mezzogiorno, che bagnano le tracce lasciate dall’ animale e ne portano via il sottile odore.
Viceversa il vento settentrionale, sempre che il cielo sia sereno, conserva quell’odore, e non lo cancella o rende tenue, come abbiamo detto che fanno le piogge e le forti rugiade.
Anche la luna lo rende meno sensibile, specialmente quando è quintadecima, fase in cui le pedate della lepre sono incertissime e vaghe: ciò succede perché le lepri scherzando fra loro alla luce del plenilunio saltellano e giocano, confondendo le loro tracce e rendendo difficile ai cani sentirle, specie se nella stessa notte le volpi abbiano battuto gli stessi luoghi e sentieri prima di loro.
Per questa caccia la primavera è la stagione migliore, grazie alle sue temperature che rendono più chiare ed evidenti le pedate delle lepri, salvo ove vi siano dei fiori, la cui fragranza non solo nuoce all’olfatto dei cani, ma confonde ancora più quel sottile odore che le lepri lasciano al suolo con i loro piedi.
Nell’estate poi tale odore diviene ancora più tenue a causa dell’aria calda e delle esalazioni infuocate della terra, che oltretutto rendono meno acuto l’odorato dei cani per la stanchezza causata loro dai caldi eccessivi; mentre in autunno le tracce delle lepri si confondono di meno poiché i fiori sono oramai secchi e appassiti e la frutta, giunta a maturazione, viene raccolta e conservata; onde il tenue odore delle pedate della lepre non si confonde con nessun altro ed i cani lo sentono meglio.
Anche d’inverno, come d’estate e d’autunno, le tracce dell’animale sono più nette e meno confuse, ma non altrettanto in primavera: infatti, la lepre è un animale socievole ed amico dei suoi simili, e tanto più lo è quando la natura riprende il suo ciclo, e in questa stagione la notte si riuniscono quasi sempre; e così, mangiando insieme e amoreggiando, lasciano pedate dubbie e confuse.
Le tracce poi che la lepre lascia nel luogo in cui giace conservano il suo odore più a lungo di quelle che lascia con le sue pedate, poiché il nido, dove si intrattiene parecchie ore e che prende le forme del suo corpo, s’imbeve del suo odore e lo conserva, contrariamente a quanto avviene per le pedate fresche lasciate in terra; e la lepre preferisce fare il suo nido nei boschi e nelle selve, luoghi dove più a lungo si ferma e cammina, impregnandolo dei suoi odori, piuttosto che nei luoghi aperti lungo i campi.
Questo grazioso animale ha poi l’abitudine di coricarsi ora sull’erba, ora sulla nuda terra, ed ora sul fogliame caduto dagli alberi sotto i quali è andato a mangiare, e di trascorrere lì parte del suo tempo; e quando è vicino al mare vi si tuffa se trova qualche piccolo pezzo di legno o qualche ramoscello che possa servirgli da appoggio per nuotare.
Allorché la lepre sente che è ora di dormire o di coricarsi subito comincia a farsi il nido, scegliendo d’inverno i posti al sole, d’estate quelli ombrosi, e d’autunno e primavera quelli temperati, dove non si sente né freddo né caldo; quelle lepri però che sono state più d’una volta cacciate ed inseguite dai cani, per paura non hanno una cova fissa né cercano tali comodi, ma si mettono a giacere dove le coglie il giorno nel seguente modo: appoggiano i fianchi sulle ginocchia dei piedi di dietro, tenendo le gambe davanti distese ed unite, posandovi sopra il mento e gettandosi sopra le spalle le orecchie; ed alcune volte si coprono con erba o foglie secche e cose simili per meglio ripararsi dalle piogge, sebbene il loro manto, formato da morbidi e folti peli, sia impenetrabile.
La lepre veglia con le palpebre chiuse e dorme tenendole aperte ed immobili insieme agli occhi; dormendo muove continuamente i denti e rumina, cose che di rado fa quando sta sveglia.
Quando la terra ridiventa verde e l’anno si rinnova ama più stare nei terreni coltivati, piuttosto che nei monti e nei boschi; e si troverà certamente vicino a dove i cani rinvengono le tracce e le orme, perché in tale stagione si va ad annidare negli stessi posti dove mangia, purché la notte precedente non sia stata spaventata ed intimorita, nel qual caso prudentemente si allontana.
La lepre è un animale così fecondo che appena ha partorito torna ad ingravidarsi, potendo ritornare pregno subito dopo il parto.
I suoi figli, cioè i leprotti, camminando lasciano nelle pedate più odore degli gli adulti, perché avendo le membra deboli camminano quasi con la pancia ed il petto per terra, appoggiandovi le cosce fino alle ginocchia; e la loro vita viene risparmiata dai cacciatori più esperti e diligenti, che ne fanno un dono ed un sacrificio di animale vivo a Diana.
Le lepri giovani poi, come quelli di un anno o poco meno, sono velocissime a partire di corsa, ma anche se agili si stancano presto per la nervatura debole della loro tenera età.
Il cacciatore nei territori coltivati, e in vicinanza delle ville e delle masserie, quando sa che può esserci la lepre deve cercarla con i cani tenendosi lontano dai fabbricati e girando intorno all’area che li contiene; ma è meglio che la vada a cercare nei prati, nei monti, vicino ai fiumi, nelle selve, e nei luoghi aspri e pietrosi ; e quando i cani la scovano il cacciatore non deve fare rumore e gridare per incoraggiarli, poiché la spaventerebbe ancora di più provocandone una velocissima fuga, durante la quale l’animale lascia tracce molto leggere, difficili ad essere ritrovate e seguite dai cani.
Se però vengono scoperte e cacciate le lepri ora si gettano nei fiumi, e li passano a nuoto, ora cambiano cammino, ed ora si rifugiano nelle grotticelle e nelle tane, entrandovi per nascondersi; fuggendo però debbono avere paura anche delle aquile e di altri grossi rapaci, che spesso le catturano, specie se piccole e giovani, mentre ai soggetti adulti ciò non capita quando sono braccati e inseguiti dai cani.
Le lepri delle montagne sono velocissime nella corsa e nella fuga, di meno le campestri, e molto meno quelle dei terreni paludosi; mentre quelle che praticano diversi luoghi, cioè monti, selve e campi, recano più disagio e fatica ai cani in quanto conoscono tutte le vie, e particolarmente le scorciatoie; cercano così di fuggire lontano, sapendo correre velocemente in salita, molto meno per il pendio, ed andando di qua e di là in pianura ora lente ora veloci.
Quando sono cacciate nei terreni coltivati e puliti rimangono sempre visibili, particolarmente quelle con il pelo rossiccio, e così anche dove vi sono boschetti di canne, attraverso i quali si può vedere ciò che succede dalla parte opposta.
Se dunque sono quasi sempre visibili ai cacciatori quando vengono inseguiti dai cani nei luoghi piani e pulititi, grazie al loro terso e lucido pelo, quando fuggono a rifugiarsi tra le rupi e i sassi dei monti o nelle valli boscose, si possono perdere di vista poiché certe pietre e certi terreni dei monti sono di colore simile al loro.
La lepre poi per istinto naturale quando sente vicini i cani si ferma e, mettendo il sedere in terra, s’alza dritta in piedi per vederli, e per capire meglio da dove proviene il loro abbaiare, e se si trovano vicini o lontani; e una volta che abbia osservato attentamente il tutto li imbroglia ritornando indietro proprio per quella strada da dove i cani medesimi sono giunti.
La lepre ha anche un’altra proprietà, quella che pensando e immaginando di aver udito qualche rumore fugge terrorizzata per lunghi tratti, ritornandosene poi per le stesse pedate che ha lasciato fuggendo; ciò accade per lo più a quelle lepri che hanno la cova in aperta campagna, poiché quelle che abitano nelle selve e nei boschi, ancorché spaventate di solito non fuggono, protette dall’ oscurità e dalle ombre che regnano di notte in tali luoghi.
C A P O V
Delle diverse specie di lepre
Due sono le razze di lepre, e cioè lepri grandi e piccoli.
I primi sono di colore scuro, ed i loro peli sulla fronte formano una stella bianca e splendente, mentre i secondi hanno un colore mischiato e con pochi peli bianchi.
I grandi tengono la coda nascosta, e i piccoli ben delineata; quelli hanno gli occhi tendenti al verde e questi al chiaroscuro.
I grandi sono molto vigorosi mentre i piccoli assai poco, e per lo più vivono nelle famose e rinomate isole deserte, dove sono più numerosi che nel nostro continente, in quanto in quei luoghi sono al sicuro, assieme ai figli, dalle volpi e dalle aquile, animali che di rado si trovano nelle pianure, perché preferiscono stanziarsi nelle zone montuose; inoltre sono più al sicuro anche perché i cacciatori vanno di rado in queste isole, e in quelle abitate gli uomini si curano poco di tal genere di caccia.
Volendo andare a caccia in certe isole consacrate agli Dei è assolutamente proibito portarci i cani, e quindi in quei luoghi tranquilli le lepri si moltiplicano velocemente, non essendovi ora – e così sarà anche in futuro – chi le uccida o le prenda con la rete o con i lacci.
La lepre non ha una vista acuta, ed il suo camminare veloce nella fuga contribuisce molto a renderla debole.
I globi dei suoi occhi sono estesi e sporti in fuori, e le palpebre troppo corte non arrivano a coprire le pupille e a difenderle dalla luce, ragion per cui vede poco e confusamente.
Inoltre, la lepre è un animaletto molto dedito al sonno, che non solo non le giova, ma che nuoce ai nervi ottici che trasferiscono le immagini al cervello: così la lepre fissa gli occhi velocemente e disordinatamente per ogni dove, e il timore dei cani la confonde, specialmente quando essi la fiutano e la inseguono; tanto che correndo e fuggendo sconsideratamente di qua e di là, va a cadere nella rete, che forse riuscirebbe ad evitare tenendo un cammino dritto.
La lepre ama i luoghi dove è nata, dove si è nutrita e dove è cresciuta, e qui di solito viene catturata.
Quando viene raggiunta dai cani e viene presa, ciò non accade perché quelli sono più veloci di lei, ma solo per qualche incidente di percorso, poiché la lepre è più celere e veloce dei cani nella corsa, alla quale il suo corpo, piccolo e proporzionato, è naturalmente predisposto, a causa della sua struttura e delle sue forme, delle quali ora vi dico.
Il suo capo agile, breve, ben ordinato e rotondo, è di giusta lunghezza, e le sue spalle sono dritte, sebbene distanti e poco proporzionate nella parte di sopra; ha gambe forti e sottili e petto largo, piccolo ai lati ma vigoroso; la spina dorsale è tonda e lunga, il ventre carnoso ed i fianchi teneri e molli, con le incavature laterali benfatte; le natiche sono grasse e pienotte in tutte le loro parti, e dalla parte di sopra ben divise fra loro; le sue cosce sono lunghe e sode, con una muscolatura estesa dalla parte esterna e sottile all’interno; le sue giunture sono lunghe e nervose, i piedi davanti sommamente agili, piccoli e dritti, e quelli dietro duri, forti, lunghi e larghi, e grazie a tutto questo non trova alcuna difficoltà a correre e saltare sui luoghi più aspri e scomodi; le gambe di dietro sono più lunghe e incurvate di quelle davanti, e la loro pelle è coperta e vestita da pelame molto folto e sottile.
Un insieme di questo tipo non può non essere robusto e parimenti agile, e lo dimostra il fatto che riesce ad accoppiarsi anche mentre cammina; i passi della lepre non si vedono né si distinguono con chiarezza, poiché i suoi piedi posteriori, sia quando corre che quando cammina lentamente, oltrepassano di buona misura quelli davanti.
Per quel che riguarda le altre parti del suo corpo la descrizione è facile: la coda, eccessivamente corta, non la aiuta a guidare le sue corse, a regolare i suoi passi e a coordinare i suoi movimenti; ma le orecchie suppliscono a tale mancanza in quanto la lepre se avverte il pericolo di essere raggiunta e presa dai cani, per potersi salvare piega e abbassa un’orecchia verso quella parte dove pensa di dirigersi, per poi dimenarsi e aggirarsi veloce nei luoghi per lasciare il suo inseguitore deluso e sconfitto.
Indubbiamente la lepre è un quadrupede così grazioso che chiunque la vedesse, sia nei momenti in cui si nutre tranquilla, sia mentre viene cacciata dai cani, o quando fugge, o anche quando viene presa, sarebbe capace di dimenticare ogni cosa; e il cacciatore, mentre si trova nel nobile esercizio della caccia, ha come ferrea regola di astenersi dal mangiare frutti e dal bere acqua, essendo addirittura considerata cosa turpe e di poco decoro solo il bagnarsene le mani.
Cosicché se la lepre fuggendo si tuffa in qualche fiume o fontana, il cacciatore per non violare la detta regola deve interrompere la caccia e ritirarsi, senza poterla più proseguire per quella giornata.
C A P O VI
Degli ornamenti dei cani
Gli ornamenti dei cani sono i collari, le corregge, i guinzagli, e le fasce.
I collari devono essere larghi e morbidi, per non provocare scorticature al collo; ai guinzagli va applicato un anello dove il canaio può tenere la mano, ed i collari non debbono essere di cuoio, per la ragione che ho detto prima.
Le fasce debbono avere le corregge larghe per non provocare ferite ai fianchi dei cani, e vanno adattate e poste in maniera che essi non si sentano stringere.
Non conviene poi portare a caccia quei cani che rifiutano il cibo o mangiano svogliatamente, perché tali atteggiamenti indicano che sono malati.
Né conviene fare esercitare i cani nei giorni in cui tira molto vento poiché tale vento non solo porta via quel sottile odore lasciato nelle sue pedate dalla lepre, ma limita anche l’odorato dei cani, oltre a poter gettare a terra le reti.
Quando poi non vi siano tali impedimenti, è bene portarli a caccia ogni tre giorni, cioè un giorno sì e due no; e non bisogna abituarli ad inseguire la volpe, perché sarebbe un grave difetto, a parte che il cacciatore non li avrebbe più sempre pronti e disponibili.
E’ anche opportuno abituare i cani a cercare e faticare in luoghi e boschi diversi, per rendere loro più esperti e il cacciatore più pratico di tali ambiti.
Si deve uscire a caccia allo spuntare del giorno, affinché l’odore delle tracce della lepre sia più fresco e sensibile, e il cacciatore pigro che ama dormire fa due mali, perché rende infruttuosa la propria opera ed inutile quella dei cani, i quali difficilmente riescono a scovare la lepre a tarda ora, dato che il sottilissimo odore delle sue pedate si smorza di momento in momento.
Nell’uscire a caccia il cacciatore che porta le reti deve vestire un abito leggero, e giunto al luogo destinato e stabilito si debbono chiudere tutte le vie d’uscita, ossia le scarpate aspre e sassose, i pendii, i sentieri aperti e quelli ombrosi, i fiumi, i ruscelli, e tutte le acque perenni delle fonti, giacché questi sono i luoghi dove più di consueto la lepre ed ogni altro animale selvatico inseguito dai cani va a rifugiarsi.
Ma se io volessi descrivere in modo particolareggiato tutti i loro modi di fuggire e di muoversi, non la finiremmo mai.
Le reti debbono essere collocate quando il sole è già sorto e non all’ alba, perché se accade di spanderle vicino al nido della lepre questa, sentendo il calpestio ed il rumore che si fa nell’adattarle al luogo ed alzarle sulle pertiche, se ne fugge senza che il cacciatore se ne accorga; se invece le reti vanno situate in luoghi lontani dal suo nido, ciò si può fare anche sull’aurora, quando non vi siano altri impedimenti.
In ogni caso le pertiche vanno infisse ben dritte al suolo, perché si possano facilmente spiantare e portare da un’altra parte.
Per mantenerle ferme si applicano alla loro sommità dei lacci, da legare a qualche albero o tronco; nel mezzo si deve alzare e stendere la rete che pende e tocca la terra, e alle corde che la sostengono, per farla restare salda e dritta, si deve appendere sia sopra che sotto una pesante pietra in modo che non si allenti all’urto della lepre quando vi cade.
Si debbono poi recingere con cura tutti i sentieri in salita per chiudere alla lepre ogni passo, e le sue tracce vanno seguite senza mai fermarsi, perché deve essere abitudine del cacciatore diligente e sollecito prendere in poco tempo qualunque genere di animale e riportare a casa abbondante caccia.
Le reti a maglie strette, e cioè a buchi, vanno piantate nei luoghi scoscesi e difficili, mentre quelle a maglie larghe, dette casses dai latini, vanno poste a chiudere le vie dove è solita passare la preda, sempre però lontano da sentieri traversi.
Le corde o funi che le sostengono come si è detto vanno legate ben ferme a terra, e quelle di sopra tenute ben tirate; dal canto loro anche le pertiche debbono essere saldamente infisse al suolo nei fossetti appositamente scavati, e le corde in alto debbono potersi allungare e distendere facilmente; e quelle che si chiamano duttili (così dette perché facilmente si portano dove si vuole) si debbono tenere tese.
Infine, il cacciatore allontanandosi dalle reti deve controllare scrupolosamente che siano state poste a dovere, e piantate a regola d’arte; se però i luoghi siano troppo in discesa, è inutile a tenervi la rete, ed è meglio raccoglierla e levarla.
Quando poi la lepre è braccata dai cani il cacciatore, gridando e facendo rumore, deve cercare di spingerla verso le reti; e se resta presa non bisogna frenare l’istinto e l’eccitazione dei cani minacciandoli o maltrattandoli, bensì accarezzandoli con dolcezza; e nel contempo è opportuno comunicare al compagno di caccia se la lepre è stata presa, o è scappata, o non s’è vista per niente, in modo che quello possa regolarsi.
Il cacciatore deve vestirsi con abiti leggieri, ordinari e di poco conto, e così debbono essere anche le scarpe.
Deve poi armarsi di un buon bastone resistente, ed entrare nel bosco e nella selva in silenzio insieme a quello che porta le reti e a tutti gli altri affinché la lepre, che magari è lì vicina, sentendo chiacchierare non si metta in fuga.
Si debbono poi distendere tutte le reti come s’è già detto; e nello stesso bosco o selva i cani vanno lasciati legati separatamente l’uno dall’altro, in modo che al momento opportuno si possano liberare facilmente.
Fatto questo, lo stesso che ha portato le reti deve restare a custodirle, mentre il cacciatore, prendendosi i cani, correrà nella selva a cercare le tracce della lepre; e invocando Apollo e sua sorella Diana Cacciatrice, per metterli a parte della futura preda, scioglierà uno dei cani più esperti a riconoscere e seguire le pedate ed orme della lepre, e ciò d’ Inverno allo spuntare del sole, d’estate prima che sorga, e negli altri tempi dell’ anno, e cioè in Primavera e un Autunno appena giunta l’aurora.
Quando poi avrà ritrovato le tracce della lepre dritte e continue, scioglierà un altro cane; e quando quelli, seguendone le pedate, s’inoltrano nella selva e vanno avanti, il cacciatore scioglierà ad uno ad uno tutti gli altri cani che ha, e andando loro dietro passo passo, li chiamerà per nome, l’uno dopo l’altro, per infondere loro voglia di cacciare e coraggio, ma con il tutto con moderatezza e giudizio, per non farli eccitare prima del tempo.
Si vedrà ora che i cani, cercando con ardore la lepre, dove le tracce della bestia siano meglio impresse nel suolo, e saltando di qua e dì là in vari modi e maniere, si inoltreranno per tutti i luoghi e sentieri dritti ed obliqui del bosco, conosciuti ed ignoti, con gli occhi sempre sfolgoranti ed ardenti; e mentre si avvicinano alla lepre ne daranno segno al cacciatore muovendo assieme tutto il corpo e la coda.
Andranno all’assalto con gran vivacità, facendo a gara a passarsi avanti; e, correndo insieme attenti e veloci, faranno degli insoliti salti in aria per poi di botto fermarsi, sempre comunque animati da generosa voglia di fare; poi, come se qualcuno ve li spingesse, ritornano di nuovo agli assalti.
Giunti così finalmente al nido o cova della lepre, le si avventano e le si spingono addosso con impeto, e quella, balzando in aria, si dà precipitosamente alla fuga tirandosi dietro il loro indispettito e rumoroso abbaiare.
Anche il cacciatore deve inseguirla, incoraggiando i cani gridando ad alta voce: a voi cani: oh poltroni : oh cani ; e così correndo loro appresso e ruotando due o tre volte il bastone lo scagli contro la lepre con tutta la forza che può, ma correndo non deve passarle avanti con il pericolo di perderla, perché quella, non più sotto la vista del cacciatore, potrebbe tornare indietro fuggendo per la stessa via sulla quale è stata cacciata.
Continui il cacciatore a gridare da ogni parte, e avvisi il compagno o il servo che caccia con lui dicendogli con voce forte: attento alla lepre: a voi la lepre : oh figliuolo : oh compagno già viene , già viene; e quelli poi facciano sapere se l’abbiano o no presa e uccisa. Se la lepre cade nella rete o viene uccisa alla prima battuta il cacciatore deve chiamare a raccolta i cani e, se glie ne va, andare a cercarne qualche altra in un altro luogo.
Se invece gli è sfuggita deve inseguirla nel modo migliore che può, rincorrendola con i cani senza risparmiarsi; e se quelli riescono di nuovo a sentirne le tracce li incoraggi gridando con voce sonora: fate bene , fate bene oh cani, state attenti, prendetela.
Che se poi i cani si sono allontanati a distanza tale che il cacciatore non abbia potuto seguirli, sia che non abbiano trovato la strada presa dalla lepre, sia che non riesca più a vederli, né a sentire il loro abbaiare, e non li vede ritornare, il cacciatore deve andarli a cercare di tutta fretta per la campagna e nei boschi, domandando ai contadini e ai pastori che incontra se abbiano visto i suoi cani.
Una volta che ha appreso dove sono, e capito che stanno seguendo la lepre, colui che fa da capocaccia deve esortarli ed animarli chiamandoli per nome ad uno ad uno, cambiando per quanto può il tono di voce, ora basso, ora grave e ora acuto e gridando: fate
bene, o cani : fate bella figura , o cani.
Ma se essi hanno perso le tracce della lepre e le siano passati avanti allora bisogna richiamarli a questo modo: tornate indietro, tornate indietro oh cani; e se riprendono a cercare le tracce e le orme della preda, essi compiranno dei giri intorno ad esse, e anche il cacciatore deve partecipare a tali movimenti per animarli, incitarli ed incoraggiarli.
Dove le tracce della lepre non sono bene identificabili è bene che il cacciatore si fermi da qualche parte spronando i cani bonariamente, finché non mostrino di averle ritrovate; e quando le tracce sono impresse di fresco i cani faranno presto a sentirle, e le seguiranno correndo, mostrandosi come sfrenati, irruenti e pieni di superbia, rivolgendo qua e là la testa con aria sapiente, e facendo comprendere senza dubbi che la lepre è nascosta nel luogo dove stanno a cacciare.
Ma quando i cani vanno troppo saltando e rigirando attorno alle tracce il cacciatore deve frenarli e non correre loro appresso, per non eccitarli troppo con il rischio di fargli perdere l’animale; però quando egli è sicuro che i cani sono vicini alla lepre, dovrà allora controllare che quella non fugga spaventata prima di essere trovata, mentre quelli continuano a dimenare e arrotolare la coda, saltando e piantando i piedi sempre nello stesso punto.
Ma qualora il cacciatore veda i cani dare l’assalto, levandosi sui piedi di dietro e così mantenersi abbaiando, o li veda durante la cerca fare salti o fermarsi a guardarlo, allora tali cani – se fanno quei movimenti a ragion veduta e non per sbaglio – saranno capaci di cacciare da soli la lepre senza che abbiano bisogno di altra compagnia o premura, e abbaiando l’ assaliranno o la spingeranno nella rete; in ognuna delle due ipotesi quello che è rimasto di controllo ne dia l’avviso ai cacciatori suoi compagni, e se la lepre è stata presa vada subito a piantare le reti da un’altra parte in modo da catturarne o ucciderne altre.
Se invece la lepre è scappata bisogna inseguirla mettendo in opera tutti gli insegnamenti già dati; e verso sera, anche se i cani sono stanchi, il cacciatore deve andare a cercare quella stessa lepre, ora debole e stanca per le fughe del giorno, ispezionando con diligenza e più volte tutti i luoghi tra l’ erbe, le fronde, ed i fiori delle selve e dei prati, in modo che la bestia non abbia modo di rimanere nascosta senza essere trovata, anche se trovarla non è così facile, sia perché la sua cova è piccola e occupa poco spazio, sia perché, stanca e piena di paura, difficilmente si rimette in movimento e torna a fuggire.
Si debbono dunque di nuovo portare i cani negli spazi più probabili, stimolando quello più stanco, frenando quello più audace e sommessamente sollecitando il mediocre, finché la lepre, costretta a muoversi, o venga uccisa dal cacciatore, o presa dai cani, oppure finisca nella rete; dopodiché il cacciatore, raccolte le reti e richiamati i cani, lascerà le selve e i prati e se ne tornerà a casa.
Se però è mezzogiorno di un giorno d’estate sarà opportuno che si riposi all’ombra lungo il cammino, in modo anche che i cani non soffrano la stanchezza e non vengano loro delle escoriazioni alle piante dei piedi, a causa dell’eccessivo calore della terra infuocata dai raggi del sole.
CAPO VII
Dell’accoppiamento dei cani e dei lori nomi
Dell’accoppiamento dei cani
Le femmine che debbono andare a razza vanno fatte unire d’inverno ed esentate da ogni fatica, perché poi possano procreare una prole sana a robusta in primavera, periodo dell’anno più propizio per tale evento.
Il ciclo mestruale dura in genere quattordici giorni, e se non dovesse comparire bisogna condurre la femmina davanti a un cane sano e robusto che con ogni probabilità riesce subito ad ingravidarla; e durante la gravidanza è meglio non portarle, se non qualche volta, a caccia nei boschi.
Dal momento del concepimento fino al parto occorrono due mesi e i cuccioli debbono essere nutriti dalla propria madre e non da altra cagna; infatti, mentre il latte materno è nutriente, gradito ed amato, quello delle altre non ha tali proprietà.
Da quando i cagnolini cominciano a camminare e finché non hanno compiuto un anno si debbono nutrire di latte, e allo stesso tempo abituarsi a mangiare solamente quegli alimenti con cui dovranno essere mantenuti per tutta la vita, nella quantità che sia sufficiente a nutrirli, poiché l’eccesso reca sazietà e gonfiore, nuoce alle loro gambe, genera morbi nei loro corpi e sconvolge tutti i meccanismi interni.
I nomi dei cani
Debbono essere brevi e cioè di poche sillabe, perché si possano pronunciare con facilità quando è necessario chiamarli, e si possono ridurre ai seguenti: Spirito, Bizzarro, Anello, Dardo, Lancia, Caporale, Insidiatore, Sentinella, Custode, Guardiano, Celere, Crudele, Ardente, Battaglia Gagliardo, Selvaggio, Travaglio, Germoglio, Sollecito, Sdegnoso, Iracondo, Furia, Minaccioso, Superbo, Florido, Valente, Anteo, Argante, Pigmeo, Piccolino, Robusto, Fiammetta, Ridente, Bianco, Splendore, Diligente, Violento, Camminante, Serio, Diletto, Fortezza, Clamore, Assassino, Disturbo, Potenza, Stella, Pensiero, Astuto, Guappone, Bandito, Letizia o Gaudio.
Le femmine si possono portare a caccia nei boschi non prima dell’ottavo mese, mentre per i maschi ne occorrono dieci, e tutti vanno tenuti legati con lunghi guinzagli in prossimità delle tracce o della cova della lepre, in modo che il cacciatore possa seguirli mentre vanno cercando o seguendo le pedate dell’animale; e quando questo sarà scovato dagli altri cani non si debbono sciogliere subito i cagnolini che si dimostrano ubbidienti, vigorosi e pronti alla corsa, ma solo quando la lepre sia scomparsa dalla loro vista in quanto, ancora teneri nelle membra e con il corpo non ancora formato, correrebbero il rischio di guastarsi e rompersi qualche piede, sforzandosi per istinto a correre dietro alla preda.
Mentre invece vanno sciolti subito, appena vedono la lepre, quelli che per la struttura del proprio corpo sono lenti e mostrano tendenza alla pigrizia, in modo che sciolti comincino a correre dietro alle sue pedate con la speranza di poterlo raggiungere e divorare; e quando la lepre viene catturata va data loro in pasto per fargliela sbranare, in modo di incoraggiarli nell’impegno di cercarla e trovarla, e diventino bravi cani da caccia.
Se poi i cagnolini non vogliono stare accanto al cacciatore custode delle reti e andassero vagando lì intorno, si debbono richiamare e poi lasciarli di nuovo andare, fino a che non si abituano a correre veloci in avanti alla ricerca della lepre; ma è pessima usanza lasciarli cercare tutti insieme perché si intrecciano e si urtano fra loro.
A tutti i cagnolini di cui si è parlato si deve dare da mangiare nel luogo stesso in cui sono state piantate le reti, perché se si perdessero nei boschi saprebbero meglio rientrare ricordando il posto dove si sono cibati.
E’ bene anche sapere che i cani non hanno desiderio di mangiare quando inseguono la lepre o altro animale selvatico, in quanto in tale circostanza bramano il sangue di quelle bestie piuttosto che il solito cibo; perciò è bene farli mangiare prima della caccia, e il pasto deve essere buono e sufficiente per molti motivi, non da ultimo perché essi odiano quei padroni che fanno mancare loro il nutrimento necessario, mentre amano quelli che li trattano e li governano bene.
Quando poi la terra è coperta di neve si deve andare a caccia dei lepri senza cani, e se dopo la neve (senza la quale d’inverno questa caccia non dà frutti) tira la bora che la fa gelare, le pedate della lepre rimangono impresse e visibili per molti giorni, e non si vanno a perdere e guastare, come accade quando soffiano Scirocco o Libeccio, o quando la neve viene sciolta dal calore del sole; e quando nevica sulla neve le pedate si coprono e si cancellano, o rimangono incerte quando viene mossa da forti venti.
Ripeto che con la neve non si deve andare a caccia con i cani, giacché non solo il freddo offende il loro odorato e ne infiamma e piaga le piante dei piedi, ma viene anche annullato e quasi annientato dal gelo l’odore delle tracce lasciate dalla lepre.
Prese dunque le reti il cacciatore vada con il compagno su quei monti o colline che sono coperte di neve, e quando vi ritrova le pedate della lepre o di altro animale s’incammini dove esse lo conducono e guidano: e se le tracce sono varie e confuse, mostrando alcune che la lepre ha proceduto in avanti ed altre che è ritornata indietro, anche il cacciatore cammini e faccia gli stessi giri, finché non trova il luogo dove essa si è acquattata; poiché tale quadrupede, sempre dubbioso ed incerto, suole passeggiare molto tra la neve, non solo perché non sa decidersi a trovare un luogo dove potersi annidare, ma anche per ingannare il cacciatore con quei suoi maliziosi cammini e rigiri intricati che gli vengono dall’istinto; essa infatti sa con preoccupazione che sono le sue stesse orme a tradirla poiché svelano ai cacciatori sia la strada che ha percorso sia dove ha fatto la cova.
Si seguano dunque le tracce ove appaiono, perché la lepre si troverà certamente acquattata per lo più nei luoghi riparati e nei colli rocciosi ed elevati, dove per effetto dei forti venti la neve poco attacca e non resiste a lungo, in quanto spinta e trasportata altrove dal loro impetuoso furore; e la lepre, tralasciando molti luoghi che sarebbero adatti per il suo nido, va in cerca di quelli che ho descritto prima per non mettersi a giacere sulla neve fredda gelata.
Quando poi il cacciatore, seguendo le dette tracce, sarà giunto dove pensa che possa trovarsi annidata, non deve avvicinarsi troppo perché potrebbe farla fuggire, ma ispezioni con cautela quei luoghi dove è sicuro che si trovi, sempre che le sue pedate non dicano che sia passata oltre o sia ritornata indietro; e quando è del tutto sicuro del luogo in cui è annidata, la lasci stare in pace, poiché la bestia non si muoverà di un dito; e il cacciatore si adoperi a trovare le tracce di qualche altra lepre prima che le pedate si perdano e scompaiano nel liquefarsi della neve, regolandosi con le ore del giorno che gli rimangono affinché, se gli capita di ritrovarne più d’una, non gli manchi il tempo, col sopraggiungere della sera, di poterle circondare ad una ad una e recingerle con le reti.
E quando così accade, e cioè che la lepre è stata trovata, è necessario circondarla e spanderle intorno la rete nello stesso modo di quando non c’è la neve, occupando interamente il luogo dove si trova annidata; ma se la lepre riesce a fuggire e a scansare le reti il cacciatore ne deve seguire le pedate perché quella, qualora non si sfinisca dentro la neve, cosa che capita di frequente, andrà certamente a salvarsi nei luoghi simili a quelli dai quali è fuggita; e ritrovandola di nuovo riposta ed acquattata deve cingerla nella maniera che ho detto sopra.
Nel caso invece che non si fermi, ma continui a fuggire, allora il cacciatore deve correrle dietro senza adoperare la rete, perché riuscirà a prenderla esausta con le sue stesse mani, in quanto con il saltare e sprofondare i piedi dentro la neve si stanca moltissimo; e ciò per la ragione che essendo i suoi piedi tutti pelosi fin sotto le piante, vi si attacca una grande quantità di neve e, per effetto della sua mole e del suo peso, non riesce non solo a fuggire ma nemmeno a camminare.
CAPO VIII
Della caccia dei cervi e dei cerbiatti
Per andare a caccia dei cervi il cacciatore si deve procurare dei cani indiani, che sono forti, grossi, generosi e veloci nella corsa, e come tali capaci di sostenere qualunque fatica.
La caccia dei cervi si deve fare in inverno, che è la stagione in cui nascono, e il cacciatore deve considerare che il bosco è il luogo dove con più frequenza si trovano le cerve, e vi si rechi con i cani e con l’arco prima dello spuntare del giorno; lasci però i cani un po’ distanti dal bosco per non farli abbaiare nel caso che vedano il cervo; e il cacciatore da qualche sommità si metta in guardia, e all’alba vedrà le cerve portarvi i figli per allattarli, e mettendosi a sedere e porgendo loro le mammelle, aver cura di situarli in modo che il cacciatore non possa vederli.
A tal vista il cacciatore tiri fuori le frecce dalla faretra e corra ad assaltare il cerbiatto che preferisce, ricordando bene, per non fallire, il luogo dove l’ha veduto giacere, dato che alle volte è più vicino di quanto possa sembrare.
Scoprendolo il cacciatore deve avvicinarsi e il cerbiatto non si muoverà, restando fermo come se fosse legato, e gettando forti gridi si lascerà ammazzare.
Ma se recenti piogge lo avessero bagnato e sentisse freddo non resterà lì fermo, e fuggirà via a tale velocità da poter essere a mala pena raggiunto dai cani; e se questi riescono a prenderlo il cacciatore lo affidi al custode delle reti che avrà cura di legarlo e custodirlo.
Così legato il cerbiatto comincerà a gridare e la madre, sentendo i dolorosi lamenti e vedendolo in quelle condizioni, si muoverà a caricare l’uomo che lo tiene imprigionato, cercando di liberarlo; ed è questo il momento di liberare ed aizzare i cani, e nel contempo fare uso dell’arco e delle frecce; e rimanendo anche la madre presa o uccisa il cacciatore si metta alla ricerca di altri cervi, nei cui confronti si comporterà alla stessa maniera, perché solo così facendo si riescono a prendere.
I cerbiatti poi più grandicelli, non si possono avvicinare con la stessa facilità dei piccoli mentre sono a pascolo in compagnia delle madri e in mezzo ad altri cervi, in quanto sono i primi a fuggire quando si cerca di prenderli, mentre le madri lottano in loro difesa attaccando e calpestando i cani, onde non è facile catturarli se non si riesce a separarli dal branco e a farli rimanere soli.
Per quanto riguarda la prima fuga è impossibile per i cani raggiungerli e vincerli; ma quando restano soli e pieni di paura per la lontananza e l’assenza delle madri e degli altri cervi, non potendo a causa della loro tenera età fuggire la seconda o la terza volta con la stessa velocità della prima, vengono raggiunti e presi dai cani; poiché, come ho già detto, le membra ancora deboli ed i corpi teneri e molli impediscono loro faticose e ripetute fughe.
CAPO IX
Delle fosse e dei lacci
I cacciatori per prendere i cervi usano anche i lacci, che dispongono nei monti, intorno ai prati, accanto ai fiumi e alle fonti, vicino ai boschi, nei bivi dei sentieri, nei campi ed in ogni altro luogo praticato da questi animali.
La pertica dove si attacca il laccio dev’essere di media grandezza, in modo che possa piegarsi, e bisogna toglierle la scorza per non farla marcire o tarlare.
Il suo buco dev’essere rotondo, e chiodi di legno e di ferro vanno posti nella sua piegatura in maniera alternata, in modo che se i primi dovessero cedere, i secondi, più duri e più forti, possano conficcarsi nel piede del cervo; al detto buco deve essere legata una funicella passata tre volte perché non si rompa, dovendo essere ben resistente per tale tipo di caccia.
La pertica deve essere di legno di quercia, d’elce o d’altro albero duro e pesante, lunga tre palmi e grossa quanto il braccio di un uomo, e alla stessa deve essere lasciata la scorza, e non tolta, per la ragione che in seguito dirò.
Bisogna quindi scavare una fossa della circonferenza di cinque piedi, con la parte di sopra eguale alla lunghezza del laccio che vi si deve stendere, e fare in modo, scavando la fossa, che le misure corrispondano perfettamente; e situati i lacci incrociandoli su tutta la sua apertura, si sistemino sopra ad essi delle verghette di legno lisce e senza nodi avendo cura che non siano di molto spessore, coprendole poi con quel fogliame che riserva la stagione.
Indi si sparga su di essa un primo strato di terra prendendola dal mucchio scavato per fare la fossa, e un secondo formato da terra solida presa lontano in modo che il cervo non si possa accorgere dell’operazione e non scopra il luogo dell’agguato.
Si dovrà infine per le stesse ragioni trasportare lontano dalla fossa la terra scavata, da cui provengono vapori ed effluvi che il cervo riconosce, e che lo inducono a tornare indietro evitando il pericolo.
Il cacciatore nei luoghi montuosi deve uscire a caccia con i cani preferibilmente al sorgere dell’aurora, ma può anche farlo per tutte le restanti parti del giorno, dato che i cervi frequentano senza ora la montagna poiché quei luoghi sono disabitati e solitari, mentre nei campi aperti tale caccia è buona solamente di mattina presto, per la presenza in altre ore di pastori e contadini.
La tagliola e i lacci vanno qui preparati la notte prima, e mai di giorno come si può fare in montagna, tenendo anche presente che i cervi hanno paura degli uomini che stanno nei campi per i loro lavori e fuggono andandosi ad imboscare non appena li vedono comparire: e quando la tagliola si risulterà rivoltata da sotto in sopra, il cacciatore sciolga i cani, e s’incammini seguendo la traccia del solco a degli altri segni che il legno trascinato dal cervo, cui era stata legata la tagliola, lascerà in terra.
Tali segni saranno sempre certi e sicuri per lunghi tratti del cammino, ed anche le pietre nei luoghi in cui il cervo è passato trascinandosi il legno mostreranno la strada che lui ha preso in quelle campagne; e se l’animale passa per sentieri aspri e scoscesi, il cacciatore se ne accorgerà dai pezzi della corteccia del legno che rimarranno senza dubbio impressi sopra agli scogli e sopra le rupi dove dal cervo è stato trascinato, e sarà facile andare appresso all’animale e trovarlo.
Se il cervo sarà rimasto preso nella tagliola con il piede davanti, il cacciatore può facilmente affrontarlo e ucciderlo, poiché nel fuggire il legno gli sbatte sul petto, sul muso e su tutto il corpo; mentre se è finito nella tagliola con il piede di dietro il legno che trascina gli impedisce il cammino, e anche quando vuole correre e fuggire nel bosco per salvarsi la cordicella del pezzo di legno che si trascina, se resistente e non si rompe, gli si impiglia nei rami, e il cacciatore troverà il cervo come incatenato, e lo prenderà vivo.
Se però è un maschio, anche venga raggiunto dal cacciatore legato e stanco, è sempre pericoloso accostarsi, poiché potrebbe far del male con il tirare dei calci e con le corna, ed è bene ucciderlo da lontano con l’arco o la lancia.
Nei tempi estivi poi i cervi vengono cacciati anche senza gli ordigni e gli strumenti venatori menzionati, poiché quando sono a lungo inseguiti dai cani perdono le forze, e fermandosi per riposarsi e prendere fiato vengono trafitti dalle frecce dei cacciatori; e a volte capita anche che, sotto lo stimolo della paura, vadano a gettarsi nel fiume o nel mare quando vi sono vicini, ed altre volte che scivolino e cadano a causa della stanchezza.
CAPO X
Della caccia ai cinghiali
Il cacciatore per andare a caccia di porci selvatici, ossia di cinghiali, deve essere provvisto di ottimi cani, come per appunto lo sono quelli detti Indiani, quelli di Creta, di Locri e della Laconia; e deve portarsi reti, dardi, lance, schidioni e le descritte tagliole.
Parlando prima dei cani, questi non debbono essere cani ordinari, ma tali che siano capaci di attaccare il porco selvatico e lottare con lui.
Le corde di tutte reti debbono essere formate di forte stoffa di lino e composte di tripla funicella, ognuna delle quali deve avere quindici fili e dieci maglie di altezza, mentre la lunghezza dei lacci deve essere di un solo cubito (mezzo metro).
Le reti più corte e a maglia rada debbono essere tessute con una funicella grossa il doppio delle altre, cui vanno legati alla sommità 15 anelli entro cui far passare le corde.
I dardi debbono essere di vario genere, ma tutti con i ferri della punta sufficientemente larghi e levigati, e con le aste forti e dure; ma le armi da preferire sono le lance, che debbono essere di corniolo o ciliegio selvatico e lunghe cinque braccia, con in mezzo ricavati dei denti proporzionati e forti,
Tutti gli altri ordigni venatori sono gli stessi descritti per la caccia ai cervi, ma quella dei cinghiali va praticata da cacciatori riuniti in una squadra, poiché la forza e le reazioni di quella fiera sono così forti che per fermarla e prenderla occorrono molti uomini insieme.
Ed ora esporrò le regole da seguire per tale caccia.
Per prima cosa quando i cacciatori saranno giunti nel luogo dove pensano possa essere nascosto il cinghiale portando con sé parecchi cani, ne scioglieranno uno di Laconia tenendo legati gli altri, e con quello solo gireranno intorno al bosco per trovare le pedate del porco selvatico; e una volta trovate le seguano dovunque esse lo guidino.
Molti saranno i segnali che indicano dove l’animale sia andato a riparare, poiché nei terreni morbidi e bagnati le sue pedate rimangono profondamente impresse, mentre nelle selve e nei boschi ne indicheranno il passaggio i ramoscelli che ha troncato con i denti e le cicatrici lasciate dalle sue zanne nella corteccia degli alberi.
Il cane correrà per lo più a cercarlo nella boscaglia più fitta, già sapendo per istinto naturale e per arte che la bestia si rintana tra i cespugli più densi e folti, per la ragione che d’ inverno tali luoghi sono più caldi e d’ estate molto freschi; e quando il cane giungerà dove giace il porco comincerà ad abbaiare, ma quello, che non si spaventa di fronte ad un solo cane, non si muoverà affatto e rimarrà fermo.
Allora il cacciatore provvederà a richiamare il cane e a legarlo insieme agli altri, tenendoli lontani dal luogo dove il cinghiale si nasconde.
Ciò fatto il cacciatore dovrà spandere le reti per tutti gli spazi circostanti e per i sentieri obliqui e laterali, legando bene le corde che le sostengono ai rami o ai tronchi degli alberi, e facendo in modo che esse rimangano immobili e ferme.
La rete così spasa e allargata deve essere sostenuta da entrambi i lati da pali di legno, avendo cura di lasciare libera la parte interna, affinché il cinghiale non possa accorgersi delle insidie e dell’agguato e quindi evitarle.
Come si è detto bisogna legare bene e con forza la rete ai rami degli alberi, e solo quando ciò non è possibile ai tronchi, avendo cura di chiudere con fascine e con rami tagliati tutti i luoghi rimasti senza rete, in modo che il cinghiale trovi difficoltà a passarvi, e vada a cadere nella rete, senza che abbia la possibilità di cambiare strada per evitarla.
Una volta così preparate le reti i cacciatori vadano a sciogliere i cani dove li hanno lasciati legati e, presi i dardi e gli schidioni, diano inizio alla caccia.
Il più esperto dei cacciatori esorterà i cani e darà loro coraggio, seguito dagli altri compagni, divisi tra loro da un congruo intervallo, affinché ognuno abbia un proprio campo di azione nei confronti del cinghiale, che fuggendo correrà da tutte le parti per scappare: anche perché se il porco nel fuggire dal nido s’imbattesse nei cacciatori riuniti fra loro vi sarebbe pericolo di essere morsi o feriti, riportando conseguenze anche gravi in seguito a tali aggressioni.
I cani, quando saranno giunti alla tana del cinghiale, lo assaliranno con impeto e violenza, per cui quello levandosi turbato e confuso per fuggire e salvarsi altrove, spingerà indietro e farà rinculare tutto ciò che si trova davanti caricando con la possente fronte; e se trovandosi davanti alla rete in un luogo scosceso gli capita di cadere, si rialzerà subito, mentre se sarà in piano si fermerà sulle prime accanto ad essa; ed allora mentre i cani gli danno l’assalto i cacciatori debbono essere attenti e pronti a tirargli le frecce e a circondarlo, cercando di spingerlo anche a sassate verso la rete; anzi il più esperto e valoroso dei cacciatori facendosi avanti lo affronti, e cerchi di colpirlo con lo schidione, sapendo che se così ferito e sforzato non vuole andare verso la rete la bestia gli si avventerà contro, e sarà allora necessario farsi avanti e colpirla tenendo lo schidione con entrambe le mani, tenendo avanti la sinistra e dalla parte di dietro la destra, in quanto la sinistra regola la direzione e la destra imprime la forza.
I piedi del cacciatore debbono seguire i movimenti delle mani, e cioè il sinistro la mano sinistra e il destro la mano destra; e avvicinandosi al cinghiale, il cacciatore gli metta avanti la lancia o lo schidione, saltando col piede destro avanti al sinistro, e poi nello stesso modo ritorni alla posizione di prima; guardi allora la fronte del porco, ne osservi attentamente i movimenti, e con tutta la forza e perizia che ha impugni e vibri la lancia, facendo in modo di non fallire il bersaglio a causa del muoversi della bestia.
Il cinghiale per potersi salvare assalirà con impeto e forza il cacciatore e questi, qualora ciò accada, non deve restare in piedi perché il cinghiale lo colpirebbe e lo ferirebbe, ma deve gettarsi faccia a terra al livello dei cespugli più bassi, poiché in tal modo il porco non potrà colpirlo a causa della curvatura delle sue zanne; il cinghiale allora tenterà di sollevarlo da terra, per poterlo colpire e vendicarsi, ma quando capisce di non riuscirci lo calpesterà dispettosamente salendo più volte con i piedi sulle sue spalle; e perché il cacciatore riesca a sfuggirgli da sotto e salvarsi è necessario spingerlo a reagire, cosa che deve fare uno dei suoi compagni di caccia il quale, avvicinandosi armato anch’egli di lancia o di schidione, dovrà incoraggiarlo a difendersi da solo, fingendo di abbandonarlo e di non poterlo aiutare.
E se il cinghiale nel vedere il nuovo cacciatore muoverà furioso all’assalto di questi, colui che è a terra dovrà alzarsi in piedi in un batter di ciglio impugnando lo schidione, in quanto non è onorevole salvarsi senza vincere e uccidere il nemico.
Alzatosi dunque in piedi si avventi contro al cignale come aveva fatto prima e gli punti lo schidione contro la spalla, e precisamente verso la parte anteriore del collo, dove è situata l’arteria, e lì conficchi il ferro con tutta la forza che ha.
A questo punto il porco, infuriato per la ferita ricevuta che lo condurrà a morte, si lancerà velocemente in avanti, e se non fosse trattenuto dai micidiali denti dell’arma, salterebbe addosso al cacciatore per caricarlo e azzannarlo.
Nessuno può immaginare quanta forza abbia il cinghiale, basterà dire che appena ucciso i suoi denti sono talmente infuocati che bruciano i peli del muso che vi toccano, e parimenti quando da vivo li arrota essi gettano scintille di fuoco, tanto che i peli dei cani che lo stringono e lottano con lui, se ne vengono a contatto rimangono subito arsi e abbrustoliti.
Il cinghiale maschio è molto più difficile a prendersi rispetto alla scrofa, ma per questa, se accade che il cacciatore la rincorre mentre sta fuggendo, stia bene attento a non cadere perché verrebbe calpestato e morso.
Di certo non conviene gettarsi a terra volontariamente, ma se per disgrazia avviene il cacciatore deve comportarsi come ho detto sopra e, una volta di nuovo in piedi, deve colpire la bestia ripetutamente con la lancia o con lo schidione fino a che non la uccida.
I porci selvatici si prendono pure in quest’ altro modo: si stendono le reti nei varchi e nei passi delle selve, dei boschi e delle foreste, e nei luoghi da essi frequentati nelle valli e nelle boscaglie, nonché nei campi, nelle paludi e nelle vicinanze delle fonti; e il cacciatore che viene incaricato di custodire le reti deve anche lui essere armato di lancia o schidione, mentre tutti gli altri debbono portare i cani a cercare la tana del cinghiale nei luoghi che sembrano i più adatti per accoglierla.
Appena trovato bisogna seguire il cinghiale senza stancarsi, e qualora si diriga verso le reti, il cacciatore lasciato di guardia dovrà subito impugnare la lancia o lo schidione regolandosi come ho detto prima nel caso che il cinghiale lo carichi; e se la bestia prende invece altra strada è necessario correrle dietro e tentare tutto il possibile per averla a tiro e colpirla.
Il cinghiale adulto inseguito dai cani tende a sfiancarsi e, sebbene sia molto più forte e veloce di loro, correndo e fuggendo respira pesantemente e va in affanno, e quindi s’indebolisce; in questo genere di caccia si possono perdere molti cani, ed anche la vita stessa dei cacciatori corre dei pericoli.
Ma quando questi si trovano a dover attaccare con la lancia o lo schidione la bestia già stanca e affaticata, andandola a cercare dovunque si rifugi, sia vicino alle fonti che tra le rupi, ovvero nei luoghi ombrosi delle selve, dai quali quella non vuole andarsene ed uscire, debbono andare all’assalto con vigore e coraggio, manovrando la lancia o lo schidione nelle maniere che ho già descritto, in modo tale che anche siano chiaramente manifeste la partecipazione e l’amore per l’esercizio della caccia; e così non di rado accade che il cinghiale resti preso e ucciso.
Per catturare questa bestia si fa per anche uso della tagliola o trappola, che va piazzata negli stessi luoghi che per i cervi, e naturalmente sono in tutto simili gli avvertimenti, le attenzioni, le corse per raggiugerli e l’inizio della lotta per prenderli, nonché l’uso ed il maneggio delle armi che sono comunque sempre quelle.
Per quanto poi riguarda i porchetti è molto difficile prenderli poiché anche abbastanza grandicelli si accompagnano sempre alle madri, e quando vengono trovati dai cani, o anche quando essi sono loro vicini, fuggono subito nelle selve e nei boschi, sempre ovunque seguiti dalle proprie madri, che in tali circostanze diventano ancora più feroci di quando debbono combattere per sé stesse
CAPO XI
Della caccia ai leoni, ai leopardi, ai lupi cervieri,
alle pantere e agli orsi
I leoni, i leopardi, i lupi cervieri, le pantere, gli orsi, ed altri simili animali feroci si prendono in luoghi da noi molto lontani, come quelli intorno al Monte Pangeo nella Tracia e a quello di Quito in Macedonia, o nell’Olimpo, in Pindo, o in quel di Misia in Asia minore; alcuni se ne prendono pure nelle montagne di Nisa sopra la Siria, ed in altre zone dove tali quadrupedi trovano le sostanze adatte al proprio nutrimento.
Nei monti la caccia di queste belve si pratica con l’uso del veleno aconito, erba che non manca in quelle regioni, che i cacciatori mischiano a qualche cibo di cui esse sono golose per prenderle morte, lasciandolo vicino alle fonti o in altri luoghi che tali fiere sogliono frequentare.
Nelle pianure invece i cacciatori, bene armati e montati a cavallo, le prendono isolandole in mezzo a loro, ma non senza correre anche gravi pericoli.
La caccia a tali animali viene praticata anche scavando fosse larghe, profonde e rotonde, in mezzo alle quali deve essere lasciato un cilindro di terra di pari altezza, nella cui sommità viene di notte legata una capra, avendo poi cura di coprire la fossa intorno con rami e fogliame: la fiera udendo i lamenti della capra accorrerà per mangiarsela, ma non si accorgerà del fosso e vi cadrà dentro, e lì verrà presa perché per la profondità di esso non sarà capace di uscirne.
CAPO XII
Esortazione alla caccia con una invettiva contro i Sofisti
Tutto quello che è stato detto fino ad adesso intorno alla caccia mette in luce i grandi vantaggi che ne provengono a chi la pratica con passione ed amore, poiché l’esercizio di tale disciplina mantiene in salute e rende robusti, conservando per lungo tempo l’udito e la vista, e ritardando l’invecchiamento.
Oltre a ciò, se addetti alla milizia, e sia necessario marciare per strade impervie e sotto il peso delle armi, i cacciatori si stancano meno facilmente degli altri e non rallentano, poiché sono abituati per la caccia alle fatiche che debbono sopportare.
Potranno anche, senza sentirne disagio, dormire sulla nuda terra e saranno sempre pronti ad ogni minimo cenno del comandante. Sapranno nello stesso tempo assalire il nemico ed eseguire gli ordini ricevuti, perché hanno appreso tali regole praticando la caccia, e posti nelle prime file non abbandoneranno la loro postazione, poiché sono ardimentosi ed intrepidi; e qualora il nemico volti le spalle per fuggire sapranno inseguirlo con padronanza e coraggio per tutti luoghi, anche difficili e scoscesi, dal momento che sono abituati a tali faticosi ed aspri esercizi; e se il loro esercito sarà perdente, e la battaglia quel giorno volgerà al peggio, potranno salvarsi con maggiore facilità ritirandosi prudentemente nelle selve, e nei luoghi meno praticabili ed inaccessibili per il nemico, senza dare segno di vergognosa viltà; e ciò perché la caccia li ha abituati ad affrontare celermente anche i più difficili cammini.
Vi sono anche quelli che, ritornati all’attacco dopo che il grosso del proprio esercito si è dato alla fuga, con il loro coraggio ed ardimento sono riusciti a mettere in fuga il nemico che stava per vincere, disorientato per la non conoscenza e la difficoltà dei luoghi; poiché la fortuna è sempre compagna ed amica degli animi audaci ed intrepidi.
Essendo tali verità note ai nostri antenati, essi sottoposero i giovani allo studio e all’esercizio della caccia affinché poi divenissero abili soldati e combattessero con vigore contro i nemici; e ancorché nei tempi più antichi gli uomini fossero afflitti da miseria e povertà, tuttavia ritennero non doversi vietare ai cacciatori di poter entrare nei fondi altrui in quanto essi non vanno alla ricerca dei frutti che la terra produce; anzi era anche loro permesso di pernottare in campagna, durante la pratica della caccia, per non privarli di tale piacere, dal momento che sapevano che solo questo divertimento apporta ai giovani grandi benefici, in quanto li distoglie dall’uso e dall’arte del dolo e dell’inganno.
I nostri antenati avevano ben compreso come grazie alla caccia avessero fortuna le campagne di guerra, e come la caccia non costituisse impedimento a qualsiasi altro lavoro si volesse intraprendere, poiché tali ostacoli provengono da certi vizi e vili piaceri che io non voglio nemmeno nominare, e dei quali è bene non avere nemmeno conoscenza.
La caccia è un inesauribile vivaio di buoni soldati e di ottimi e valorosi capitani perché tiene i cacciatori lontani da comportamenti vili e da pensieri bassi e volgari; al contrario fa nascere nel loro cuore il prezioso amore per la virtù, tanto che i cacciatori sono in genere ottimi e bravi cittadini, amanti e difensori della Patria e dello Stato.
Alcuni dicono che non è bene abituarsi alla caccia perché il suo esercizio porta a trascurare i lavori e gli affari domestici, nonché la cura della propria famiglia; ma chi dice questo dimentica che i benefattori della Patria e degli amici sono parimenti accorti e diligenti nella difesa e nell’esercizio dei propri interessi; cosicché se i cacciatori si comportano in maniera tale da essere reputati molto utili per le Repubbliche e per le Monarchie, certamente lo saranno anche di più per le loro famiglie; e poiché la conservazione o la perdita dei beni del cittadino hanno rispettivamente effetto sullo stato felice o misero delle Repubbliche e degli Imperi i cacciatori, essendo uomini abilissimi nel maneggio delle armi e di conseguenza ottimi per la milizia, sono i migliori custodi dei propri e dei pubblici tesori.
Ma parecchi di coloro che, rosi dall’invidia, non parlano e non pensano in tal modo, preferiscono perdersi nella propria vile pochezza che mettersi al sicuro sotto lo scudo della virtù; e attratti e resi schiavi da tanti vizi sono per forza obbligati non solo a fare discorsi indegni, ma anche ad operare in tale maniera; e per effetto dei loro sciocchi e inutili ragionamenti diventano odiosi a tutti, senza considerare che per questo loro scellerato modo di comportarsi molto spesso si ammalano in maniera gravissima fino a raggiungere la morte.
Ma tali mali non li riguardano solo direttamente, perché coinvolgono anche i loro figli ed i loro amici, che sono i primi ad imitare la loro condotta e a seguire il loro esempio nel vasto ed orribile mare dei piaceri, andando così incontro ad irreparabile rovina senza essere stati in grado di prevederla.
Nessuno allora si servirà di tali uomini per la difesa della Repubblica e della Monarchia, ma i detti mali faranno inorridire tutti quelli che seguono le nostre ammonizioni e i nostri consigli, oltretutto anche divertendosi.
L’educazione alla onestà, che a detta dei saggi è la seconda natura umana, insegna a rispettare le leggi ed a fare ed ascoltare ragionamenti giudiziosi e giusti; ed avviene che coloro che non disdegnano di vivere sotto la tirannia dei peggiori e biasimevoli vizi sono per natura pessimi e malvagi cittadini, più bruti che uomini, poiché non ubbidiscono alle leggi e non seguono i buoni insegnamenti ed i sani consigli.
I poltroni non conoscono le qualità che formano l’uomo perbene, non essendo capaci di comprenderle perché ignoranti e senza religione, e perché frequentano uomini privi di ogni sapienza, che in genere sparlano degli uomini saggi; da costoro niente di buono si può sperare, mentre la società civile trae vantaggi dagli uomini dotti e colti, tra i quali i più utili e migliori sono quelli abituati alla fatica.
Tali verità sono confermate da chiari esempi, primi fra tutti quelli degli eroi di cui ho parlato all’inizio di questa opera, i quali sottoposti fin da piccoli alla disciplina di Chirone dallo studio e dalla pratica della caccia impararono molte cose oneste che li resero ornati di particolari virtù, per effetto delle quali, anche oggi, dopo tanti secoli, sono oggetto di ammirazione.
La virtù piace a tutti, ma siccome si acquista solo con i sacrifici e la fatica viene da molti schernita e non praticata, dato anche che la ragione per cui bisogna praticarla non è chiara, come invece lo è la fatica per raggiungerla.
Se gli uomini potessero vedere la virtù come vedono la materia corporea, ne constaterebbero la bellezza e forse la terrebbero in maggior conto, e guidati da essa saprebbero operare con rettitudine ed onestà; infatti chi la pratica, per rendersi più gradito ed amabile al prossimo, cerca di comparire migliore e più educato di quello che è, e agisce correttamente e con decoro per non mostrarsi scostumato ed ignorante.
Oggi uomini malvagi commettono pubblicamente ribalderie e scellerataggini perché credono che la virtù sia cieca come loro, mentre quella, essendo immortale, è in ogni luogo e vede tutto; e in base ai meriti o ai demeriti colma i buoni di onori e i cattivi di ignominia.
Se questi ultimi pensassero che tutto è presente agli occhi della virtù, e che nulla le si può nascondere, sicuramente affronterebbero tutte quelle fatiche e tutti quei sacrifici che, attraverso lunghi tempi, sono necessari per possederla.
Mi meraviglio quindi come alcuni tali, che si fanno chiamare sofisti, si vantino di guidare i giovani per i sentieri della virtù, quando al contrario li tengono del tutto lontani da essa; e non ho mai visto uscire dalla loro scuola uomini perbene, dato che non insegnano quelle materie per mezzo delle quali il cittadino apprende i propri doveri, che sono in pratica le regole del buon vivere.
Questi sofisti hanno scritto molti libri pieni di vanità e di cose inutili, dai quali i giovani non imparano la virtù, madre del valore, della fortezza e della probità, ma cose esattamente contrarie ed opposte, quali i divertimenti ed i piaceri corporali, che a detta di Platone sono l’esca di tutti i mali; e fanno perdere il tempo in tali inutili e dannosi studi anche a coloro che sono desiderosi del vero sapere, distraendoli dalle materie e dalle conoscenze da cui invece potrebbero trarre profitto.
Io dei sofisti biasimo i molti vizi e non già i loro scritti, che contengono ragionamenti sani e di pregio, e quelle giuste lodevoli opinioni e sentenze che rendono virtuosa la gioventù.
Io sono peraltro un uomo triviale senza la pretesa di insegnare quei precetti di giustizia di cui i giovani educati alla virtù sogliono avvalersi; ma non sono le parole dell’oratore che rendono gli uomini di buon costume, bensì gli esempi e i sentimenti saggi e onesti.
D’altra parte non sono solo io a vituperare tali sofisti, che non sono dei filosofi, ma anche molti altri, perché essi falsamente mostrano grande modestia e prudenza nei ragionamenti facendoli apparire saggi, ma niente di tutto ciò esiste nelle loro azioni e nel loro modo di comportarsi.
Io so bene che da qui a poco qualcuno mi accuserà, anche con cattive maniere, di non aver trattato in modo appropriato ciò che ho scritto in questa mia operetta, sebbene abbia fatto tutto il possibile per costruirla bene e con ordine.
Costoro hanno la critica facile e sono sempre pronti a trovare difetti negli scritti altrui; ma dicano pure quello che vogliono.
La mia scrittura è semplice e non pomposa come quella dei sofisti, ha la funzione di insegnare ai lettori principi di bontà e sapienza, e non mi importa se qualche volta diventa l’oggetto di maldicenze e di critiche ingiuste e livorose.
I sofisti parlano per ingannare e scrivono per guadagnare, non sono utili a nessuno né mi risulta che dalla loro cerchia sia mai uscito fuori qualche uomo saggio e stimabile, e ognuno di essi si pavoneggia di essere chiamato sofista, titolo cui attribuiscono grande importanza, ma che invece per le persone equilibrate e dotte è solo di vergogna e di obbrobrio.
Il mio consiglio è dunque che si debbano disprezzare le professioni ed arti sofistiche e si debbano invece tenere in considerazione i precetti dei filosofi, poiché i sofisti cercano di prendere nel loro sistema di reti giovanetti ricchi e ingenui, mentre i filosofi si mettono sempre di buon grado a disposizione del prossimo e sono amici di tutti, senza il pensiero di prendere di mira le ricchezze altrui, che non invidiano né fanno oggetto di disprezzo.
Non credere, o lettore, degni della tua approvazione coloro che temerariamente vanno in cerca di profitti ed averi pubblici e privati, ed abbi per certo che gli uomini perbene ragionano sempre saggiamente, hanno buoni sentimenti e sono inclini alla fatica, mentre i malvagi, soffocati dai loro vizi, sanno solo dare pessimi consigli e vanno considerati usurpatori dei beni pubblici e privati.
Per quel poi che concerne il benessere pubblico i sofisti sono considerati esseri inutili più di ogni altro cittadino, in quanto non abituati né alla fatica né al lavoro, mentre i cacciatori per amore della Patria mettono in pericolo non solo la propria vita ma anche gli averi e i beni acquistati onestamente
I cacciatori assaltano le bestie feroci ed i sofisti gli amici, e per questo i primi ricevono lodi ed i secondi universale vituperio e disprezzo; i cacciatori inoltre vincono e uccidono delle belve che danneggiano e rendono deserte le campagne, e anche se non riescono a prenderle sono degni di lode, perché non solo difendono la propria Patria dai suoi nemici, ma anche gli altri uomini da quelle fiere che sono nemici comuni a tutti.
In più i cacciatori con il loro faticoso esercizio divengono migliori e più adatti per molte altre operazioni, e nel contempo anche più saggi, ragion per cui noi diamo questi insegnamenti: l’esercizio della caccia supera di molto le altre discipline in ciò che deve farsi e nella pesantezza del lavoro, e i cacciatori per questo sono reputati degni di gloria e invincibili; inoltre gli animali selvatici e feroci, forti e potenti nelle loro tane e nei loro rifugi nei boschi, combattono contro di loro per salvarsi la vita, e il cacciatore si affaticherebbe invano se non avesse l’esperienza e la prudenza necessarie per vincerli.
Così mentre i Sofisti , volendo arricchirsi restando in città senza uscire fuori a lavorare e ad affrontare disagi, s’ingegnano ad opprimere ed affossare gli amici, i cacciatori combattono non solo contro i comuni nemici della patria ma anche, più generalmente, in difesa e vantaggio di tutta la comunità.
In realtà ciascuna delle due categorie esercita la propria particolare caccia, ma mentre i cacciatori la esercitano con modestia e pulizia, gli altri la portano avanti con argomenti che insegnano ai giovani ad essere scostumati e senza pudore.
E ancora: mentre i cacciatori rifuggono dalle scelleratezze e dagli ingiusti guadagni, che guardano con indifferenza e disprezzo, i sofisti non se ne astengono affatto; e mentre i primi parlano in maniera spassosa e piacevole, le chiacchiere ed i discorsi dei secondi risultano sempre pruriginosi e fastidiosi.
Infine, per quel che riguarda la religione e gli Dei, i sofisti sono tutti miscredenti, atei e blasfemi, né vi è modo di farli ricredere, mentre i cacciatori sono religiosissimi ed hanno il dono della pietà.
E’ fama poi fin dai tempi più antichi che gli stessi Dei avevano gran piacere a praticare la caccia, come pure a essere spettatori di questo necessario, utile ed onesto divertimento; da quanto ho detto dunque si deduce e ne consegue che se i giovani terranno a mente le mie rette ammonizioni ed i miei consigli, e vorranno dare loro seguito, saranno uomini pii e devoti adoratori della Divinità, sapendo che essa è sempre presente a qualsiasi loro azione, e saranno anche buoni nei confronti dei loro genitori e della propria Patria, nonché considerati tra gli uomini migliori dai concittadini e dagli amici.
Tanto più se avranno davanti agli occhi come esempio non solo tutti quegli eroi già ricordati i quali, mentre vissero, amarono moltissimo l’utile, nobile e necessario esercizio della caccia, ma anche parecchie valorose donne, quali Diana, Atalanta, Procri e qualche altra, che furono nel passato famose cacciatrici.
Fine