DA ERODOTO – LE STORIE, CONTINUA IL LIBRO I – Traduzione di Luigi Annibaletto, Mondadori 1956.

LEGGIAMO INSIEME ERODOTO

Nacque ad Alicarnasso tra il 490 e il 480 a.C.. Spirito inquieto, ulisside insonne alla ricerca d’un qualche cosa che sempre fuggiva dinanzi a lui, andò errando per mari e per terre, tra l’arsura del deserto di Libia e il gelo della terra di Scizia (l’attuale Russia meridionale); e dal cumulo delle attente personali osservazioni, dalle informazioni assunte nei vari luoghi, dalla sua innata facoltà di discernimento e di confronto derivò la vasta materia delle sue Storie (L. Annibaletto).

DA ERODOTO – LE STORIE, INIZIO DEL LIBRO I – Traduzione di Luigi Annibaletto, Mondadori 1956.

§ 1

1 Non appena i Fenici dal mare così detto Eritreo s’affacciarono a questo nostro mare e si stanziarono nella regione che tutt’ora abitano, subito si dettero a grandi navigazioni, trasportando merci egiziane e assire; tra l’altro sarebbero giunti anche ad Argo – in quel periodo Argo primeggiava in tutto tra le città del paese che ora si chiama Grecia. Arrivati dunque ad Argo i Fenici vi esposero le loro mercanzie.

2 Quattro o cinque giorni dopo il loro arrivo, quasi quando tutte le merci erano state vendute, vennero alla riva del mare, dicono, anche numerose donne e, fra esse, la figlia del re, il cui nome era Io, la figlia di Inaco.

3 Queste donne dritte in piedi presso la poppa della nave, facevano acquisto delle merci che più erano di loro gradimento, quando i Fenici, incitatisi tra loro, si gettarono su di esse.

4 La maggior parte riuscì a fuggire, ma Io e alcune altre furono rapite: i fenici imbarcatele sulla nave, se ne andarono facendo vela verso l’Egitto.

5 Ora – continua Erodoto – a giudizio dei dotti persiani, se rapir donne è azione da uomini ingiusti, è agire da stolti prendersi pena per vendicarle; mentre è da uomini benpensanti non curarsene affatto, poiché è chiaro che, se esse non volessero, non si lascerebbero rapire.

6 Per quel che riguarda Io i Fenici non vanno d’accordo con quanto dicono i Persiani: non è infatti che quei mercanti marinai l’abbiano condotta in Egitto per averla rapita, ma la fanciulla in Argo aveva avuto rapporti con il proprietario della nave; poi quando s’accorse d’ essere incinta, temendo i genitori, di buon grado si era imbarcata con i Fenici, perché la sua colpa non diventasse manifesta.

Nota: Il rapimento di Io da parte dei Fenici ebbe come rappresaglia da parte dei Greci il rapimento di Europa, figlia del re fenicio di Tiro e successivamente, a Ea nella Colchide, di Medea, figlia del re di quella terra, anch’egli fenicio; ma da questi fatti non sorsero guerre. Mentre nella generazione successiva quando Paride, figlio di Priamo re di Troia (Ilio), rapì la spartana Elena, i Greci dettero luogo alla guerra cantata da Omero nell’Iliade. Tale iniziativa di vendetta è deprecata da Erodoto, che invece ritiene saggio il pensiero di noncuranza dei dotti persiani, inteso ad evitare eventi di guerra.

§ 2

7 Gli Eraclidi, discendenti da una schiava di Iardano e da Eracle, presero possesso della signoria trasmessa da costoro in virtù di un v4 aticinio; e vi regnarono, durante 22 generazioni in linea maschile, per 505 anni, ricevendo il potere ciascuno dal proprio padre, fino a Candaule figlio di Mirso.

8 – Questo Candaule, dunque, era innamorato di sua moglie; e, nell’esaltazione dell’amore, credeva di possedere donna di gran lunga più bella di tutte.

Convinto di ciò, dato che fra le guardie del corpo c’era un certo Gige, figlio di Dascilo, che godeva in modo particolare la sua simpatia, a lui faceva le sue confidenze sugli affari più seri; e, fra l’altro, anche sulla bellezza della moglie, che esaltava oltre ogni dire.

Ma era proprio destino che Candaule dovesse finir male; dopo un po’ tenne a Gige questo discorso: < O Gige, poiché ho l’impressione che tu non mi creda  quando ti parlo della bellezza di mia moglie ( in effetti gli uomini prestano meno fede a quello che odono, in confronto a quella che vedono), fa in modo di vederla nuda>.

Ma quello alzando grida di protesta, esclamò: < O signore, quale discorso dissennato mi vai facendo tu, che mi inciti a guardare nuda la mia signora? Insieme con la veste la donna si spoglia anche del pudore. Già da antico gli uomini hanno trovato precetti di saggezza, dai quali giova trarre ammaestramento; uno di essi è che ciascuno volga lo sguardo a ciò che è suo. Io sono convinto che essa è la più bella di tutte le donne e ti prego di non chiedermi delle cose disoneste>.

9 – Con tali ragioni egli tentava di schermirsi, temendo che glie ne dovesse derivare qualche malanno.

Ma quello replicò: < Fatti animo, Gige; e non temere né di me, per paura che ti faccia questa proposta per tentarti, né di mia moglie, al pensiero che te ne possa venire del danno; poiché tutto io combinerò in modo che nemmeno si avveda di essere da te osservata. Infatti, ti farò entrare nella stanza dove passiamo la notte e ti collocherò dietro un battente della porta che si apre; subito, dopo che io sarò entrato, verrà anche mia moglie a coricarsi. Vicino alla porta di entrata c’è una sedia, e su questa essa depositerà gli indumenti, a uno a uno, man mano che se li toglie di dosso e tu potrei contemplarla con tutta tranquillità. Quando, poi, dalla sedia si dirigerà verso il letto e tu ti troverai alle sue spalle, abbi cura che non ti veda mentre te ne andrai attraverso la porta>. (Continua)

Nota: Siamo nel 500 a. C. nel regno di Lidia, che dagli Eraclidi passò alla famiglia dei Mermnadi del re Creso proprio per le vicende di Candaule e Gige. Vedremo con la prossima lettura il perché.

§ 3

10 – Sicchè Gige, visto che non poteva avere scampo, era disposto ad ubbidire e Candaule, quando gli parve giunta l’ora di andare a dormire, lo introdusse nella stanza da letto; subito dopo ecco  anche la moglie e mentre essa entrava e deponeva i suoi vestiti Gige la contemplava. Poi quando la donna, accostandosi al letto, gli volse le spalle, di soppiatto se ne uscì, ma mentre se ne andava essa lo scorse. Pur comprendendo quello che il marito aveva combinato, non si mise ,però, a strillare per la vergogna, né fece mostra di essersene accorta, ma nell’animo meditava la vendetta contro Candaule; per i Lidi, infatti, come pure, in generale per gli altri Barbari, essere visto nudo, anche per un uomo, è cosa che procura grande vergona.

11 – Per il momento, dunque, senza dare a veder nulla se ne stette così, quieta; ma non appena fu giorno, messi sull’avviso quelli dei servi che vedeva esserle particolarmente devoti, fece chiamare Gige. Questi, convinto che la regina nulla sapesse di quanto era avvenuto, si presentò all’invito, poiché anche prima era solito recarsi da lei quando la regina lo chiamava.

Quando, dunque, Gige arrivò, la donna gli disse: < Ora Gige, delle due vie che ti si presentano, lascio a te scegliere quella che vuoi seguire: o, ucciso Candaule, ti prendi insieme con me anche il regno dei Lidi; oppure tu stesso, qui subito, devi morire, affinché, in tutto ligio a Candaule, non abbia per l’avvenire a veder più ciò che non si deve. Poiché bisogna pure che scompaia o lui, che ha combinato questo tranello, o tu che mi hai visto nuda e hai fatto ciò che non è lecito>.

Gige per un poco rimase sbalordito ad ascoltare ciò che gli di diceva; ma poi si mise a scongiurarla di non metterlo nella necessità di dover fare una tale scelta.

Siccome però non riusciva piegarla, e vedeva che era assolutamente  necessario o uccidere il suo signore o essere egli stesso ucciso da altri, scelse di sopravvivere.

Quindi le rivolse questa domanda: < poiché mi costringi a privare della vita il mio padrone, contro mia voglia, suvvia, che io sappia in qual modo potremo mettere le mani su di lui >.

Ed essa di rimando disse: < Dal medesimo luogo partirà l’insidia donde anche egli mi ha fatto apparire nuda; lo si colpirà mentre è immerso nel sonno>. ( continua)

Nota: Probabilmente Gige era l’amante della regina, e decisero di uccidere Candaule per averne il regno. Erodoto racconta la storia della moglie fatta vedere nuda dal marito per giustificarne l’uccisione, al fine di rendere legittimo il nuovo regno, come sorto da una giusta vendetta e non da un turpe delitto.     

§ 4

Quando si furono accordati sulle modalità dell’insidia, sopraggiunta la notte, Gige (dato che non lo si lasciava libero, né vi era alcuna via di scampo, ma bisognava proprio che morisse lui o uccidesse Candaule) seguì la donna nella stanza da letto.

Essa, dopo avergli messo in mano un pugnale, lo nascose dietro la stessa porta; e più tardi, mentre Candaule riposava, Gige sbucato dal nascondiglio e uccisolo, divenne padrone della moglie di lui e del suo regno.

Anche Archiloco di Paro, che visse nello stesso periodo, ne fa menzione in un trimetro giambico.

13- Ebbe così il regno e vi fu confermato da un oracolo di Delfi.

Infatti, siccome i Lidi consideravano grave sventura l’uccisione di Candaule e avevano già in pugno le armi, fra i partigiani di Gige e gli altri Lidi si venne ad un accordo: che cioè, se l’oracolo avesse sentenziato che egli era re di Lidia avrebbe regnato, altrimenti avrebbe restituito il potere agli Eraclidi.

Il responso fu a suo favore e così Gige fu re.

Veramente la Pizia aveva detto pure quest’altra cosa, che gli Eraclidi si sarebbero vendicati  sul quinto discendente di Gige; ma di questa predizione i Lidi e i loro re non tennero conto alcuno, finché non venne a compimento.

14-In questo modo, i Mermnadi si impadronirono della signoria, avendone spogliati gli Eraclidi; e Gige non appena fu sul trono, inviò a Delfi offerte abbondanti: per quel che riguarda offerte in argento, ve ne sono moltissime in Delfi che appartengono a lui; ma oltre all’argento egli offrì una enorme quantità d’oro; tra l’altro anche questo che merita in modo particolare di essere ricordato: ben sei crateri d’oro furono da lui consacrati. Si trovano questi del peso di 30 talenti nel tesoro dei Corinzi ( a dire la verità, il tesoro non è del popolo di Corinto, ma di Cipselo, figlio di Eezaine).

Questo Gige fu il primo dei Barbari, da noi conosciuto, che abbia consacrato delle offerte a Delfi, dopo Mida, figlio di Gordia, re di Frigia: poiché anche Mida consacrò il trono regale, sul quale sedeva in pubblico per amministrare la giustizia, e che merita proprio di essere visto; questo trono si trova là dove sono pure  i crateri di Gige.

Gli oggetti d’oro e d’argento , offerti da Gige e di cui s’è parlato, sono chiamati da quelli di Delfi  Gigade, dal nome, appunto, del donatore.

Anch’egli, salito al potere, invase con un esercito il territorio  di Mileto e di Smirne e s’impadronì della città bassa di Colofone.

Ma poiché nessuna altra grande impresa fu da lui compiuta, pur avendo regnato per 38 anni, dopo quanto abbiamo ricordato non ne parleremo più. (continua a settembre)

Nota: Non appena ucciso Candaule la regina, divenuta proprietà di Gige, esce di scena. Gige, salito saldamente al potere ad opera dell’oracolo di Delfi, invia allo stesso enormi offerte di argento ed oro, che oggi potrebbero apparire come il prodotto di una corruzione o di una concussione: un oracolo comunque ben pagato, poiché 30 talenti d’oro equivalgono a 780 kg.  

§ 5

15- Ricorderò invece Ardi, il figlio di Gige, che regnò dopo di lui.

Questi conquistò Priene e invase il territorio di Mileto, e fu appunto che mentre regnava in Sardi che i Cimmeri, scacciati dalle loro sedi ad opera degli Sciti nomadi, vennero in Asia e conquistarono Sardi, eccetto l’acropoli.

16- Ad Ardi, il cui regno durò 49 anni, successe il figlio di lui Sadiatte, che regnò 12 anni, e a Sadiatte successe Aliatte.

Fu costui che fece guerra a Ciassare, discendente di Deioce, a ai Medi; che scacciò i Cimmeri dall’Asia; che

espugnò Smirne, abitata da coloni di Colofone e invase il paese di Clazomene. Però da quest’ultimo si dovette ritirare non come avrebbe desiderato, ma dopo aver subito gravi sconfitte.

17- Ma durante il suo regno egli compì altre azioni, più che mai meritevoli di essere raccontate, e sono queste: fece guerra ai Milesi, guerra che aveva eredita da suo padre.

L’attacco e la guerra a Mileto avvenivano nel modo seguente.

Quando nella campagna il raccolto era bello alto, allora egli vi faceva irrompere il suo esercito: la spedizione si faceva a suon di zampogne, arpe e flauti, tanto acuti che gravi; giunto nel territorio di Mileto, egli non abbatteva le case sparse per i campi, né le incendiava né sfondava le porte, ma le lasciava così, come stavano e, dopo aver distrutto piantagioni e frutta se ne tornava indietro.

I Milesi, infatti, erano, padroni del mare ed il suo esercito non aveva la possibiltà di cingere di assedio completo la città.

La ragione per cui il re di Lidia non faceva abbattere le case era questa: perché i Milesi avessero un punto da cui partire per seminare la terra e per coltivarla; ed egli grazie al loro lavoro avesse sempre qualcosa da distruggere durante le sue incursioni.

18- Così facendo protrasse per 11 anni la guerra, nella quale toccarono ai Milesi due gravi sconfitte nei combattimenti ingaggiati, uno sul loro territorio a Limeneo, l’altro nella pianura del Meandro.

Durante i primi 6 di questi 11 anni era ancora re della Lidia il figlio di Ardi, Sadiatte, quello che allora invadeva il contado di Mileto e che aveva dato inizio alla guerra; invece nei 5 anni successivi a questi 6 la guerra era condotta dal figlio di Sadiatte, Aliatte, il quale, avendola presa in eredità dal padre, come ho già detto in precedenza, la conduceva con ostinazione.

Nessuno degli Ioni in questa terra si mosse in aiuto dei Milesi, tranne soltanto quelli di Chio; ma questi, soccorrendoli, non facevano che cambiare il favore, in quanto già prima quelli di Mileto avevano aiutato Chio a sostenere la guerra contro Eritre.

Nota. Questo passo delle Storie è interessante perché ci racconta in cosa per lo più consistevano le guerre tra le popolazioni di allora: devastazioni dei campi con incendi e con distruzione dei raccolti e della frutta, azioni da compiersi nel periodo primavera-estate, quando poi in autunno e in inverno le guerre rimanevano sospese. Otto secoli dopo i capitani di ventura usavano la stessa tecnica negli assedi dei castelli e dei borghi, o anche semplicemente, quando erano di passaggio, per estorcere agli abitanti alimenti per le truppe e per i cavalli: nel 1400 uno di questi condottieri, uno dei minori, detto il Mostarda, provocò incendi nelle campagne di Treia, fino a quando le sue pretese non furono soddisfatte.  

§ 6

19) Nel dodicesimo anno, però, quando il raccolto dalla soldataglia veniva dato alle fiamme, accadde questo fatto: appena appiccata alle messi, la fiamma, spinta dal vento, si estese al tempio di Atena soprannominata Assesia. Che, preso fuoco, ne fu incendiato.

Per il momento non se ne tenne alcun conto, ma quando il corpo di spedizione se ne tornò a Sardi, Aliatte cadde ammalato, e poiché la malattia andava per le lunghe, egli mandò degli incaricati a Delfi, seguendo il consiglio di qualcuno, o pensando egli pure cosa saggia mandare ad interrogare il dio sul suo male.

Quando però questi furono giunti a Delfi, la Pizia dichiarò che non avrebbe dato il responso, se prima non avessero ricostruito il tempio che avevano incendiato nel territorio di Mileto, ad Asseso.

20) Questo io lo so per averlo sentito da quelli di Delfi, ma i Milesi vi fanno questa aggiunta: Periandro, figlio di Cipselo, che aveva strettissimi vincoli di ospitalità con Trasibulo, allora al potere a Mileto, informato del responso fatto ad Aliatte, mandò un messo a riferirlo a Trasibulo, affinché questi, sapendolo in precedenza, prendesse i provvedimenti del caso. Così la raccontano i Milesi.

21) Aliatte, intanto, quando gli fu annunciato ciò che diceva la Pizia, mandò subito a Mileto un araldo, perché voleva stipulare con Trasibulo ed i Milesi una tregua che durasse il tempo necessario per ricostruire il tempio.

Mentre dunque l’araldo era sulla via di Mileto Trasibulo, che oramai era stato messo chiaramente al corrente di ogni cosa e sapeva ciò che Aliatte intendeva fare, ricorse a questo artificio: fece portare sulla piazza tutto il frumento che c’era in città, tanto il suo quanto quello dei privati cittadini; e diede ordine ai Milesi, che quando egli ne avesse dato segnale, si mettessero tutti a bere, intrattenendosi allegramente fra di loro.

22) Trasibulo si comportava in tal modo e impartiva queste disposizioni affinché l’araldo di Sardi, visto il gran cumulo di grano e gli uomini in piena letizia, lo riferisse ad Aliatte. Come, del resto, avvenne; poiché quando l’araldo, dopo aver osservato quella messa in scena ed esposto a Trasibulo quello che gli aveva ordinato il re di Lidia, se ne ritornò a Sardi,  non ci fu bisogno d’altro (mi si dice) perché ci fosse pace.

Infatti Aliatte, il quale si immaginava che in Mileto ci fosse una tremenda carestia e che il popolo fosse ridotto all’estremo della miseria, sentiva dall’araldo ritornato da Mileto, notizie al tutto contrarie a quelle che egli si aspettava.

In seguito quindi si stipulò la pace tra i due popoli a queste condizioni, che ci fosse reciproca ospitalità e alleanza.

Aliatte eresse in Asseso due templi ad Atena invece di uno, e fu guarito dalla malattia.

Questa le vicende che toccarono ad Aliatte nella guerra contro i Milesi e Trasibulo.

NOTA: Aliatte dopo aver per 12 anni appiccato il fuoco alle messi dei Milesi, chiede una tregua per ricostruire il tempio e guarirsi, per poi ricominciare le sue devastazioni peggio di prima. E’ una forma ingenua di Erodoto di riferire le cose, ma traspare dal racconto il modo di pensare e di vivere della gente di allora. Trasibulo, uomo scaltro, invece di negare ad Aliatte la possibilità di ricostruire il tempio, facendo così in modo che morisse, preferisce attraverso una messa in scena ottenere una pace duratura, valida anche per gli eredi dell’avversario: e Aliatte, che non brucerà più i raccolti dei Milesi, al fine di meglio guarire costruisce non uno ma due templi in onore di Atena. Per ben comprendere bisogna immaginare il semplice ed agreste contesto in cui a quei tempi e in quei luoghi ci si muoveva, e come si avesse fede, timore o speranza nei confronti degli oracoli e degli dei.

§ 7

23- Periandro, colui che comunicò a Trasibulo il vaticinio, era figlio di Cipselo ed era signore di Corinto.

Durante la sua vita, dicono i Corinzi, ( e con loro sono d’accordo i cittadini di Lesbo) gli capitò di assistere ad un fatto straordinario e meraviglioso: Arioine di Metimna, trasportato al capo Tenario sulla groppa di un delfino, era un citaredo secondo a nessuno di quelli del suo tempo e primo degli uomini, a nostra conoscenza, che compose dei ditirambi, diede ad essi il nome e li fece eseguire a Corinto.

24 – Questo Arione, dicono, che passava la maggior parte del tempo preso Periandro, fu preso dal desiderio di far vela verso l’Italia e la Sicilia, e dopo aver accumulato grandi ricchezze, volle tornare di nuovo a Corinto.

Partì, dunque da Taranto e, siccome non si fidava di nessuno più dei Corinzi, noleggiò appunto un battello di cittadini di Corinto. Questi però quando furono in alto mare, tramarono di gettare ai pesci Arione e impadronirsi delle sue ricchezze.

Egli, accortosi del malvagio proposito, si diede a scongiurarli, offrendo loro i suoi tesori, ma chiedendo salva la vita.

Non riuscì tuttavia con tale mezzo a convincerli; anzi i marinai gli imposero o di darsi egli stesso la morte, per poter avere sepoltura in terra, o di gettarsi in mare al più presto.

Messo in tal modo alle strette, Arione chiese che, se proprio così avevano deciso, gli permettessero almeno di cantare per l’ultima volta, ritto tra i banchi dei rematori, con tutta la pompa dei suoi ornamenti: prometteva che, dopo aver cantato, si sarebbe dato la morte; ed essi, che erano allettati dal piacere di poter ascoltare il miglior cantore che ci fosse tra gli uomini, si ritirarono dalla poppa verso il centro della nave.

Arione, quindi, indossati tutti i suoi paramenti e presa in mano la cetra, ritto tra i banchi dei rematori,eseguì dal principio alla fine il nomo ortio; e alla fine del canto, così come stava, con  tutti i vestiti si gettò in mare.

I marinai fecero vela verso Corinto; quanto ad Arione dicono che un delfino, presolo sul dorso, lo portò al promontorio Tenaro; quivi sceso a terra si diresse a Corinto abbigliato com’era ; e giunto colà spiegò tutto l’accaduto.

Periandro, dicono, piuttosto incredulo, tenne Arione sotto sorveglianza, senza lasciarlo andare in nessun luogo; intanto aspettava con impazienza l’arrivo dei marinai; quando questi furono arrivati, chiamatili al suo cospetto, chiese loro se avessero qualche notizia di Arione da riferirgli. E mentre quelli lo assicuravano che era sano e salvo in Italia e lo avevano lasciato in buone condizioni a Taranto, comparve loro davanti Arione, vestito come quando aveva spiccato il salto in mare; dimodoché essi, sbigottiti, non ebbero più modo, colti in fallo, di negare l’accaduto.

Questo è quanto raccontano Corinzi e Lesbi; ed esiste, in verità, al capo Tenaro, un ex voto di Arione, di modeste proporzioni, che rappresenta un uomo sulla groppa di un Delfino.

Nota. Tanto per avere chiaro quale fosse il teatro di questi racconti e capire gli usi musicali del tempo, Metimna era la seconda città dell’isola di Lesbo, e capo Tenaro é l’odierno capo Matapan all’estremità meridionale della Laconia. I ditirambi erano canti corali orgiastici in onore di Dionisio, forse l’antica progenie delle moderne Osterie cantate dagli universitari, e il nomo ortio un inno a carattere liturgico a tono elevato. Erodoto è prudente nel riportare queste storie, intrise di favola e allegoria, le racconta ma ne esteriorizza la fonte, che alla fine è solo un qualcosa che si riferisce alla tradizione orale che, navigando nei secoli, è sempre stata la base del buon senso e del fantasticare degli uomini.   

§ 8

23- Periandro, colui che comunicò a Trasibulo il vaticinio, era figlio di Cipselo ed era signore di Corinto.

Durante la sua vita, dicono i Corinzi, ( e con loro sono d’accordo i cittadini di Lesbo) gli capitò di assistere ad un fatto straordinario e meraviglioso: Arioine di Metimna, trasportato al capo Tenario sulla groppa di un delfino, era un citaredo secondo a nessuno di quelli del suo tempo e primo degli uomini, a nostra conoscenza, che compose dei ditirambi, diede ad essi il nome e li fece eseguire a Corinto.

24 – Questo Arione, dicono, che passava la maggior parte del tempo preso Periandro, fu preso dal desiderio di far vela verso l’Italia e la Sicilia, e dopo aver accumulato grandi ricchezze, volle tornare di nuovo a Corinto.

Partì, dunque da Taranto e, siccome non si fidava di nessuno più dei Corinzi, noleggiò appunto un battello di cittadini di Corinto. Questi però quando furono in alto mare, tramarono di gettare ai pesci Arione e impadronirsi delle sue ricchezze.

Egli, accortosi del malvagio proposito, si diede a scongiurarli, offrendo loro i suoi tesori, ma chiedendo salva la vita.

Non riuscì tuttavia con tale mezzo a convincerli; anzi i marinai gli imposero o di darsi egli stesso la morte, per poter avere sepoltura in terra, o di gettarsi in mare al più presto.

Messo in tal modo alle strette, Arione chiese che, se proprio così avevano deciso, gli permettessero almeno di cantare per l’ultima volta, ritto tra i banchi dei rematori, con tutta la pompa dei suoi ornamenti: prometteva che, dopo aver cantato, si sarebbe dato la morte; ed essi, che erano allettati dal piacere di poter ascoltare il miglior cantore che ci fosse tra gli uomini, si ritirarono dalla poppa verso il centro della nave.

Arione, quindi, indossati tutti i suoi paramenti e presa in mano la cetra, ritto tra i banchi dei rematori,eseguì dal principio alla fine il nomo ortio; e alla fine del canto, così come stava, con  tutti i vestiti si gettò in mare.

I marinai fecero vela verso Corinto; quanto ad Arione dicono che un delfino, presolo sul dorso, lo portò al promontorio Tenaro; quivi sceso a terra si diresse a Corinto abbigliato com’era ; e giunto colà spiegò tutto l’accaduto.

Periandro, dicono, piuttosto incredulo, tenne Arione sotto sorveglianza, senza lasciarlo andare in nessun luogo; intanto aspettava con impazienza l’arrivo dei marinai; quando questi furono arrivati, chiamatili al suo cospetto, chiese loro se avessero qualche notizia di Arione da riferirgli. E mentre quelli lo assicuravano che era sano e salvo in Italia e lo avevano lasciato in buone condizioni a Taranto, comparve loro davanti Arione, vestito come quando aveva spiccato il salto in mare; dimodoché essi, sbigottiti, non ebbero più modo, colti in fallo, di negare l’accaduto.

Questo è quanto raccontano Corinzi e Lesbi; ed esiste, in verità, al capo Tenaro, un ex voto di Arione, di modeste proporzioni, che rappresenta un uomo sulla groppa di un Delfino.

Nota. Tanto per avere chiaro quale fosse il teatro di questi racconti e capire gli usi musicali del tempo, Metimna era la seconda città dell’isola di Lesbo, e capo Tenaro é l’odierno capo Matapan all’estremità meridionale della Laconia. I ditirambi erano canti corali orgiastici in onore di Dionisio, forse l’antica progenie delle moderne Osterie cantate dagli universitari, e il nomo ortio un inno a carattere liturgico a tono elevato. Erodoto è prudente nel riportare queste storie, intrise di favola e allegoria, le racconta ma ne esteriorizza la fonte, che alla fine è solo un qualcosa che si riferisce alla tradizione orale che, navigando nei secoli, è sempre stata la base del buon senso e del fantasticare degli uomini.   

§ 9

25 Aliatte di Lidia, quello che aveva portato alla fine della guerra contro i Milesi, venne in seguito a morire dopo aver regnato 57anni.

Egli fu il secondo di questa famiglia che, guarito da una malattia, dedicò in Delfi un grande cratere d’argento, col suo basamento in ferro le cui parti erano saldate, offerta degna di essere vista più di tutte quelle che sono in Delfi, opera di Glauco di Schio, l’unico uomo al mondo che abbia trovato il modo di saldare il ferro.

26 Morto Aliatte eredità il regno Creso, suo figlio, che era in età di 35 anni e che assalì, primo fra i greci, gli abitanti di Efeso.

Fu allora che gli Efesi, assediati, consacrarono la città ad Artemide, avendo agganciato una fune che dal tempio giungeva fino alle mura; e tra la città vecchia, che allora veniva assediata, e il tempio, ci sono sette stadi.

Per primo dunque Creso assalì costoro; ma poi a uno ad uno successivamente (assalì) i popoli della Ionia e della Eolia, adducendo per gli uni una scusa, per gli altri un’altra; accusando di colpe più gravi quelli per cui poteva trovarne, ma per alcuni di essi faceva valere anche pretesti di poco conto.

27 Allorché i greci stanziati nell’Asia furono da lui assoggettati e costretti a pagare un tributo, egli pensò di costruire delle navi e assalire quelli che abitavano nelle isole.

Quando però tutto era già pronto per allestire la flotta dicono che Biante di Pirene (secondo altri sarebbe stato Pittaco da Mitilene) che era arrivato a Sardi, alla domanda di Creso se in Grecia ci fosse qualche cosa di nuovo, diede questa risposta che gli fece interrompere i lavori: < O Re, gli abitanti delle isole stanno assoldando un contingente sterminato di cavalleria perché hanno intenzione di muovere in armi contro Sardi e contro di te.>

Creso, convinto che quello dicesse il vero, esclamò: < Magari gli dei ispirassero questo proposito agli isolani di venire ad attaccare i figli dei Lidi con la cavalleria!>

E quello di rimando disse: < o Re mi pare che tu ti auguri di tutto cuore di poter cogliere sulla terraferma gli isolani a cavallo, ed è naturale che tu la pensi così. Ma gli Isolani che altro credi tu che si augurino, da quando hanno saputo che ti accingi a costruire navi per attaccarli, se non sperare di cogliere i Lidi sul mare, e per poter fare su di te le vendette dei greci che abitano nel continente e che tu tieni soggetti a schiavitù?>

Dicono che Creso molto si compiacque di questa conclusione, e siccome gli pareva che l’ospite parlasse a proposito, lasciatosi convincere pose termine alla costruzione di navi.

E fu così che strinse un patto di amicizia con gli Ioni che abitavano le isole.

NOTA. Pare che Glauco di Chio, da quanto scrive Erodoto, possa essere considerato il primo saldatore di ferro, capace di unire lamine tra loro senza chiodi e senza perni, e per quanto riguarda l’assedio di Efeso i sette stadi della fune sono pari a 1.300 metri. Vediamo poi che senza tanta burocrazia è il Re da solo a decidere se fare o non fare la guerra, e si auspica che gli isolani affrontino con la loro la cavalleria di Sardi, la più forte di tutta la Grecia; ma dando ascolto alle poche convincenti parole di un saggio egli cambia idea e si invoglia alla pace. Sia Biante di Pirene che Pittaco di Mitilene furono – come riferisce Annibaletto – due dei sette sapienti della Grecia per la loro prudente assennatezza. Si sa però che Pittaco morì prima che Creso salisse al potere e quindi l’aneddoto va attribuito a Biante.

§ 10

28 Col passare del tempo e quando quasi tutti i popoli stanziati al di qua del fiume Alis erano stati assoggettati ( infatti se si eccettuano i Cilici e i Lici Creso aveva sottomesso e teneva in suo potere tutti gli altri popoli che sono : i Lidi, i Frigi, i Misi, i Mariandini, i Calibi i Paflagoni, i Traci, tanto Tini che Bitini, i Cari, gli Ioni, i Dori, gli Eoli, i Panfili).

29 quando dunque questi popoli furono sottomessi (e Creso li andava aggiungendo ai Lidi) ecco avvicendarsi in Sardi, fiorente per ricchezza, provenienti dalla Grecia, tutti i sapienti che vivevano in quel tempo, man mano che ciascuno di essi arrivava. Fra gli altri venne anche Solone di Atene; il quale, dopo aver dato le leggi agli Ateniesi che le richiedevano, si era allontanato dal suo paese per 10, anni, mettendosi in mare sotto il pretesto di voler vedere un po’ al di là di mondo; ma in realtà per non essere costretto ad abrogare delle leggi che aveva promulgato. Nè gli Ateniesi potevano far ciò di loro iniziativa poiché s’erano vincolati con solenni giuramenti a osservare per 10 anni le leggi che Solone aveva proposto.

30 Per questi motivi, dunque, e anche per curiosità, avendo lasciato il suo paese Solone si recò in Egitto presso Amasi e poi anche a Sardi da Creso. Quivi giunto fu ospitalmente accolto dal re nella reggia.           Due o tre giorni dopo il suo arrivo, per ordine di Creso stesso, dei servi condussero Solone per le sale del tesoro e gli mostrarono che tutto era splendido e fastoso.                                                                                                      Quando egli ebbe visto e osservato con tutta comodità ogni cosa, Creso gli rivolse questa domanda: < ospite di Atene, poiché è giunta fino a noi grande fama di te, della tua saggezza e dei tuoi viaggi, che, cioè, per amore del sapere tu ha con cura visitato gran parte della terra, ora mi è venuto il desiderio di domandarti se tu hai già visto un uomo che sia il più felice del mondo>.                                                         Questo gli domandava nella segreta speranza di essere lui stesso indicato come il più felice degli uomini; ma Solone, lontano da ogni adulazione, e badando solo alla verità, rispose: < si, o re: Tello di Atene!>            Pieno di stupore per questa affermazione Creso gli domandò con vivacità: < e per quale motivo pensi tu che Tello sia l’uomo più felice del mondo?>                                                                                                                  L’altro replicò: < Tello in un momento di splendore per la città, ebbe dei figli belli e buoni e di tutti vide venire al mondo i figli, e tutti rimasero in vita; non solo, ma fortunato egli stesso nella vita come si può esserlo tra noi, gli sopraggiunse la fine più gloriosa; poiché essendo gli Atenesi impegnati in una battaglia ad Eleusi contro i loro vicini, egli accorse sul campo e costretti i nemici alla fuga, morì nel modo più bello. Gli ateniesi lo seppellirono a spese pubbliche, là, nel luogo stesso dov’era caduto. E gli tributarono grandi onori>.     

NOTA: l’Alis, attualmente Kızılırmak,  è il più lungo fiume della Turchia e il suo nome, in turco, significa fiume rosso. Nell’antichità classica il fiume era considerato il confine tra l’Asia Minore e il resto dell’Asia. L’incontro tra Creso e Solone così come raccontato da Erodoto non corrisponde a verità poiché Solone emise le leggi in Atene nel 593 a.c. e Creso prese il potere verso il 560 a.c..Tuttavia – commenta Annibaletto – ciò nulla toglie al valore artistico e morale dell’episodio che lo storico si accinge a riferire. Infatti, come vedremo, Solone con le sue risposte darà una bella lezione di vita a Creso, che riteneva di essere l’uomo più felice al mondo per le sue straordinarie ricchezze.

§ 11

31 Quando Solone , esaltandone a lungo la felicità, ebbe rivolto alle vicende di Tello l’animo di Creso, questi gli chiese quali degli uomini che avesse visto, poteva essere secondo dopo di quello, convinto che il secondo posto, almeno, sarebbe stato per lui. Ma Solone disse: < Cleobi e Bitone.

Erano infatti costoro di stirpe argiva e godevano di sufficienti mezzi di vivere e in più di una vigoria fisica a tutta prova; poiché ambedue allo stesso modo erano stati vincitori di pubbliche gare e si racconta di essi anche questo episodio: celebrando gli Argivi la festa di Era la loro madre doveva assolutamente farsi portare su un carro al tempio. Ma i buoi che erano con campagna non tornavano in tempo; allora i giovani, che non potevano più oltre attendere, si misero essi stessi sotto il giogo e tirarono il carro sul quale veniva trasportata la loro madre, e dopo averlo trainato per 45 stadi giunsero al santuario.

Compiuta che ebbero questa prodezza, ammirati da tutta la folla radunata, toccò ad essi la migliore fine della vita; e nel loro caso la divinità fece chiaramente comprendere che è meglio, per l’uomo, essere morto piuttosto che godere la vita.

Gli Argivi infatti, affollatisi intorno, complimentavano i due giovani, mentre le donne d’Argo si congratulavano con la loro madre perché aveva dei figli siffatti. Tanto che essa, piena di gioia per la loro impresa e per le lodi che sentiva intorno, stando dritta davanti alla statua divina, pregò la dea che ai suoi figli Cleobi e Bitone, che l’avevano grandemente onorata, concedesse ciò che un uomo può ottenere di meglio.

In seguito a questa preghiera, terminato il sacrifico e il sacro banchetto, i due giovani, che s’erano addormentati nel santuario stesso, non si rialzarono più, ma in questo modo morirono.

Gli Argivi, fatte fare due statue a loro immagine, le consacrarono nel tempio di Delfi , come quelle di uomini che s’erano mostrati eccellenti.>

32 Solone dunque a questi giovani assegnava il secondo premio della felicità; e Creso, un po’ stizzito, esclamò: <Ospite di Atene, la nostra felicità è da te così considerata un nulla, che non ci stimi degni di rivaleggiare con dei semplici cittadini privati?>

Solone gli rispose: < O Creso, proprio a me, che so come la divinità in tutto sia gelosa e facile a sconvolgere ogni cosa, tu poni domande sulle vicende umane?

Nel lungo fluire del tempo molte cose si possono vedere che pure uno non vorrebbe, e di molte anche soffrirne. >

NOTA: Da Plutarco – ci riferisce Annibaletto – sappiamo che la madre di Cleobi e Bitone era la sacerdotessa della dea, e per questo doveva recarsi in tempo, sul carro, al santuario. Esaltare ed acclamare in tali toni l’impresa dei due giovani ( 45 stadi sono pari a 8,5 chilometri) appartiene ad un mondo semplice, fondato sul predominio delle forze naturali dell’uomo su ogni altra cosa, e sulla convinzione che la morte serena sia un premio e una liberazione. Leggeremo nella prossima puntata la conclusione del discorso di Solone a Creso, un misto di retorica e di saggezza, che forse ci farà sorridere, ma non troppo.

§ 12

< Poiché io considero il limite della vita umana press’a poco sui 70 anni. Questi 70 periodi annuali ci presentano 25.200 giorni, senza contare il mese intercalare; che se poi si vorrà che un anno su due venga prolungato di un mese, affinché il ciclo delle stagioni coincida con l’anno arrivando al tempo giusto, nel corso dei 70 anni si hanno 35 mesi intercalari, e i giorni che ne derivano sono 1050.

Orbene di tutti questi giorni che formano i 70 anni (e sono 26.250), non ce ne è uno che trasmetta all’altro una cosa completamente uguale.

Così, dunque, o Creso, l’uomo è tutto in balia degli eventi.

A me tu, ora, appari possessore di grandi ricchezze e re di molti popoli; ma quello che tu mi chiedi io non te lo posso ancora dire, prima di aver saputo che hai chiuso la tua vita nella prosperità. Poiché non è vero che colui che è molto ricco sia più felice di chi ha da vivere alla giornata, se non l’accompagna la fortuna di terminare la vita in una completa felicità: molti uomini straricchi sono infelici, mentre molti che hanno modeste possibilità di vita sono felici. 

L’uomo che è molto ricco ma infelice ha due soli vantaggi su colui che la fortuna non protegge; questi invece sul ricco infelice ne ha molti. Il primo ha più possibilità di soddisfare i propri desideri e di fare fronte a una grave disgrazia che gli sia caduta addosso, ma il secondo lo supera in questo:  non ha la possibilità come quello di sopportare una disgrazia o soddisfare un desiderio, ma da ciò lo libera la sua buona fortuna: invece è privo di infermità, senza malattie, al riparo dai mali, ha una bella figliolanza, un bell’aspetto: se, oltre a tutto ciò, chiuderà in bellezza la vita, questo è colui che tu cerchi, quello che merita di essere chiamato felice; però prima che egli muoia bisogna sospendere il giudizio e chiamarlo non ancora felice ma fortunato.

Non è possibile, per un uomo, abbracciare tutti insieme questi vantaggi, come non c’è paese alcuno che basti a fornire tutto ciò di cui ha bisogno. Ma se possiede una cosa manca di un’altra; il paese che ne possiede più di tutti, questo è il migliore del mondo.

Così pure non c’è alcun individuo che, da solo, possa bastare a se stesso: se ha un bene, di un altro è privo. Ma colui che duri nel possesso del maggior numero di questi beni, e poi chiuda serenamente la vita, costui, o re, a mio giudizio, ha il diritto di ottenere l’appellativo di felice.

Di ogni cosa bisogna considerare la conclusione, come andrà a finire; poiché a molti già il dio lasciò intravvedere la felicità e poi li precipitò nella più profonda rovina.>

NOTA: Si attribuisce a Solone – riferisce Annibaletto – l’introduzione del ciclo trieterico, e cioè un ciclo di due anni con l’intercalare di un mese: per esempio il culto orgiastico di Dionisio si svolgeva in base a questo ciclo con una festa notturna celebrata ogni due anni, al principio del terzo, nell’epoca del solstizio d’inverno. Ecco perché Erodoto rappresenta Solone alle prese con simili calcoli. Ma a parte i calcoli, già ai tempi di Erodoto si sapeva che la ricchezza non fa la felicità, ma può solo servire a soddisfare desideri e a meglio far fronte a disgrazie; ma tutto nel transitorio, perché la vita dell’uomo è sempre appesa ad un filo, manovrato per gli antichi greci dal volere degli dei.

§ 13

33 Con queste parole non faceva, io credo, molto piacere a Creso, il quale lo congedò, non avendolo ritenuto degno di alcuna considerazione; piuttosto stolto, anzi, gli era sembrato; egli che, sdegnando beni presenti, consigliava di badare alla fine di ogni cosa.

34 Quando Solone se ne fu andato, una terribile punizione divina si abbattè su Creso, perché (è il caso di pensarlo) s’era creduto l’uomo più felice del mondo.

Subito infatti mentre dormiva gli si mostrò un sogno, che gli svelò la verità dei mali che dovevano capitargli nei riguardi di suo figlio.

Aveva Creso due figli, di cui uno era disgraziato, perché sordo-muto; l’altro invece tra i coetanei era di gran lunga il primo in tutto: il nome era Ati.

Proprio questo Ati, gli rivelava il sogno, doveva perire colpito da una punta di ferro.

Creso, appena si svegliò, e se ne rese conto, tutto spaventato per il sogno, procurò al figlio una moglie; e mentre prima Ati aveva l’abitudine di marciare in armi alla testa dei Lidi, Creso non lo mandò più in alcun luogo a imprese del genere; fece portar via dagli appartamenti riservati agli uomini giavellotti, lance e tutti gli arnesi siffatti che gli uomini usano per la guerra, e li fece ammucchiare nelle stanze delle donne, per timore che un qualche arma, appesa, potesse cadere in capo al figlio.

35 Mentre questo figlio si apparecchiava alle nozze, giunse a Sardi un uomo tormentato dalla sventura, le cui mani s’erano macchiate di impurità: era frigio di nascita e di stirpe regale.

Presentatosi costui alla reggia di Creso, chiese di poter essere purificato secondo il rito del paese: e Creso lo purificò (il rito di purificazione dei Lidi è pressappoco uguale a quello dei Greci).

Quando ebbe compiute le cerimonie d’uso, Creso s’informò donde veniva e chi era, parlando così: <o straniero, chi sei tu e dal qual parte della Frigia sei venuto a rifugiarti presso il mio focolare? Quale uomo o quale donna hai ucciso?>

Quello rispose: < o Re, sono figlio di Gordia e nipote di Midia, mi chiamo Adrasto; per aver contro mia voglia ucciso mio fratello, sono venuto qui, scacciato da mio padre e privo di tutto>

Creso allora gli replicò: < vuole il caso che tu sia discendente di uomini che ci sono amici, e fra amici sei giunto: qui, rimanendo nella nostra casa, non mancherai di nulla e, sopportando codesta sventura col massimo coraggio, ne trarrai il massimo giovamento.

Nota: Creso congeda il saggio, ma pagherà cara la sua superbia, perché gli Dei confermeranno come la ricchezza da sola non genera felicità. Appena dopo il sogno, nella cui premonizione come tutti i suoi contemporanei crede, si affretta a dare una sposa al figlio, forse per distrarlo dalla caccia e da operazioni pericolose, tra lance e dardi, offrendogli un diversivo migliore, o forse per prudentemente assicurarsi subito una discendenza. Vedremo se Adrasto avrà qualche ruolo nel futuro della vicenda.

§ 14

DA ERODOTO – LE STORIE, CONTINUA IL LIBRO I – Traduzione di Luigi Annibaletto, Mondadori 1956.

36 Egli così passava la vita nella reggia di Creso ma in quello stesso tempo, sul monte Olimpo di Misia, comparve un grosso cinghiale. Il quale, scendendo dal monte, devastava spesso le coltivazioni dei Misi che, usciti più d’una volta a dargli la caccia, invece che fargli del male, piuttosto ne ricevevano.

Alla fine, recatisi da Creso, alcuni messi dei Misi gli parlarono così: <O Re, un cinghiale, un bestione enorme, è comparso nel nostro paese e ci distrugge le culture.

Noi, nonostante i nostri sforzi, non riusciamo a catturarlo.

Orbene ti preghiamo di inviare insieme con noi tuo figlio, accompagnato da giovani scelti e da cani, affinché lo scacciamo dal nostro territorio>.

Così essi pregavano: Ma Creso che non dimenticava l’avvenimento del sogno, rispose loro in questo modo: < Di mio figlio non fate più parola; che tanto non lo potrei mandare con voi; è appena sposato  ed è questo che egli ha ora per la testa. Tuttavia manderò con voi un corpo scelto di Lidi e l’equipaggiamento di caccia al completo; e a quelli che partiranno darò ordine che con tutto l’ardore possibile via aiutino a scacciare dal paese quel bestione >.

37 Questa fu la sua risposta; ma mentre i Misi erano contenti  di questa promessa, ecco entrare il figlio di Creso che aveva ascoltato la loro preghiera.

Ora, siccome Creso rifiutava di mandare il figlio con loro, il giovane gli si rivolse con queste parole: < o padre, un tempo, prima d’ora, la cosa più bella e più nobile per me era di poter godere buona fama, andando spesso alla guerra e alla caccia.

Ora invece dall’una occupazione e dall’altra tu mi tieni segregato, senza che tu abbia veduto in me tracce di viltà o di scarso coraggio. Con quale fronte posso io comparire in pubblico, quando vado in piazza e me ne ritorno? Che uomo mai sembrerò ai miei concittadini; quale uomo alla mia novella sposa? Con quale marito penserà essa di dover convivere? Suvvia, dunque, lasciami andare alla caccia; o convincimi, almeno, con la ragione, che per me è meglio che così non si faccia>.

38 Gli rispose Creso: <figlio mio, se io faccio così non è già perché abbia riscontrato in te viltà o qualche altro difetto; ma una visione, comparsami nel sonno, mi disse che avrai vita breve, perché da una punta di ferro avrai la morte.

In vista appunto di questo sogno io ho affrettatole tue nozze e non vorrei mandarti a questa impresa di caccia; sono precauzioni che prendo per vedere se mai io possa, finché duri la mia vita, sottrarti alla morte.

Tu infatti vieni ad essere l’unico figlio che io abbia; poiché l’altro, rovinato nell’udito, faccio conto che per me non esista.

NOTA: Per quanto riguarda i danni da cinghiale nulla è cambiato da allora (2.450 anni) con il trascorrere del tempo, ma almeno vivevano nelle foreste e nei campi, mentre oggi scorrazzano liberamente nelle città e rovistano nei rifiuti. La caccia al cinghiale nel mondo antico era considerata molto pericolosa, dal momento che le armi da usare erano principalmente lance e spiedi (schidioni) e si poteva creare anche un corpo a corpo con la bestia, nel corso del quale spesso il cacciatore veniva ferito e qualche volta ucciso. Così narra anche Senofonte sul suo Cinegetico. Il figlio di Creso insiste perché andare a caccia grossa creava prestigio, sia nei confronti degli uomini che delle donne.

§ 15

39 Il giovane replicò con queste parole:< comprendo o padre che tu, dopo aver visto un sogno tale, abbia a mio riguardo simili precauzioni; ma un particolare cui tu non attribuisci importanza, anzi che hai dimenticato in questo sogno, è giusto che te lo ricordi io.

Il sogno, tu dici, rivela che io dovrò morire per una punta di ferro. Ma che mani ha un cinghiale? E’ forse armato di una punta di ferro, cioè quella che tu temi? Poiché, se la visione avesse detto che sarò ucciso da un colpo di zanna o di qualche altra cosa che ad essa somigli, sarebbe opportuno che tu facessi quello che stai facendo, ma ora non si tratta d’una punta di ferro. Dunque, poiché non si va a battaglia contro degli uomini, lasciami andare>.

40 Gli rispose Creso:< figlio mio, in un certo qual modo tu mi convinci, manifestando il tuo punto di vista sul sogno: quindi, ormai da te persuaso, cambio, opinione e ti do il permesso di partecipare alla caccia>.

41 Dopo queste parole Creso mandò a chiamare il frigio Adastro e quando giunse gli parlò a questo modo:  < O Adrasto, quando tu eri colpito dalla mala sporte, di cui non ti faccio colpa, io ti ho purificato e accolto in casa mia, dove ti ospito provvedendo a ogni tua necessità; ora, poiché devi pure ricambiare con favori I favori che ti ho fatto io per primo, desidero che tu sia guardia del corpo di mio figlio, che si accinge a partire per la caccia, se mai lungo la strada dei briganti pericolosi vi compaiano dinanzi per farvi del male. Oltre a ciò , anche per te è un dovere recarti là, dove tu possa distinguerti per belle imprese : è stato questo il costume dei tuoi padri e, per di più, tu ne hai la capacità>.

42 Gli rispose Adastro:< O re, in altre circostanze io stesso non andrei a una simile impresa: non è giusto infatti che un uomo che ha avuto una disgrazia come la mia, si unisca a giovani della stessa età che sono felici; non ne ho certo voglia e per molte ragioni me ne asterrei; ma ora, poiché tu insiste, e debbo pur farti cosa gradita ( debbo ricambiare infatti i tuoi favori) sono pronto a fare ciò che tu vorrai; ed il figlio tuo , che mi ordini di custodire, fà conto che, per quanto dipende da chi l’ha in custodia, ti ritornerà sano e salvo>.

43 Dopo aver dato tale risposta a Creso se ne partirono, circondati da giovani scelti e da cani.

Arrivati sul monte Olimpo si misero sulle tracce della fiera; e scovatala, la circondarono da ogni parte, bersagliandola di giavellotti

Fu allora che quel forestiero, proprio quello che era stato purificato del suo delitto e si chiamava Adrasto, scagliando il suo giavellotto contro il cinghiale, lo scagliò e colpì, invece, il figlio di Creso.

Colpito dalla punta dell’arma questi fece sì che s’avverasse la predizione del sogno, e qualcuno andò di corsa da Creso ad annunciare l’accaduto; e, arrivato a Sardi, lo informò dello scontro sanguinoso e del destino toccato a suo figlio.

NOTA: Il linguaggio che Erodoto usa è essenziale, semplice, senza perifrasi, tanto che a noi lo scambio di parole tra padre e figlio può sembrare ingenuo, per la facilità con cui Creso si persuade a cambiare opinione a fronte di un ragionamento in verità debole del figlio: e nel raccontare la fine di Ati Erodoto non nomina la morte né illustra scene di violenza e disgrazia, mantenendo il racconto su di un piano elevato. La scena del cinghiale accerchiato richiama il Cinegetico di Senofonrte, e non a caso Adrasto significa <l’inevitabile>; e tale riferimento, annota Annibaletto, acquista  un colore tragico, indicando quell’uomo come strumento del destino.

§ 16

44 Creso, tutto sconvolto per questa morte, ancor più fieramente si lamentava perché gli aveva ucciso il figlio proprio quell’uomo che egli stesso aveva purificato per un delitto.

Sicché, terribilmente costernato per la sventura, invocava Zeus come dio della purificazione, chiamandolo a testimone di quello che aveva sofferto da parte del forestiero: lo invocava come protettore del focolare e dell’amicizia (era lo stesso dio che supplicava con questi nomi): come protettore del focolare perché, avendo accolto in casa sua il forestiero, aveva nutrito senza saperlo l’assassino di suo figlio; come protettore dell’amicizia perché, mentre l’aveva mandato con Ati a custodirlo, l’aveva trovato il peggiore dei nemici.

45 In seguito si presentarono i Lidi che riportavano il cadavere; dietro lo seguiva l’uccisore.

Questi, ritto davanti a morto, si offriva in balia di Creso, protendendo le mani, e lo supplicava di sgozzarlo lì, sul posto, rammentando la sua prima sventura e protestando che non gli era più possibile sopportare la vita ora che, dopo quella disgrazia, aveva dato la morte a colui che l’aveva purificato.

Ma Creso ad udire questi lamenti fu preso da compassione per Adrasto, pur essendo egli stesso in così grave lutto familiare, e gli disse: < Ho già da te, o mio ospite, ogni soddisfazione, perché pronunci te stesso contro di te sentenza di morte. Non sei tu certo la causa di questa mia sventura, se non in quanto, contro tua voglia, ne sei stato l’esecutore; ma è qualcuno degli dei, io credo, il quale già da tempo mi avvertiva di quello che doveva succedere>.

Creso quindi dette sepoltura al figlio, come conveniva, ma Adrasto, figlio di Gordia e nipote di Re Mida, colui che era stato uccisore del proprio fratello e uccisore di chi l’aveva purificato, quando intorno al sepolcro fu moltitudine e silenzio, rendendosi conto che di tutti gli uomini che conosceva era il più profondamente infelice, immolò sopra il tumulo se stesso.

46 Per due anni Creso in seguito alla perdita del figlio, rimase inattivo, chiuso nel suo grande dolore; ma poi il fatto che il dominio di Astiage, figlio di Ciassate, fosse stato abbattuto da Ciro, figlio di Cambise, e che la potenza dei Persiani si andasse ampliando, fece sì che Creso desse tregua al lutto, e gli pose nell’animo il pensiero se mai potesse, prima che i Persiani diventassero troppo forti, arrestarne la crescente potenza.

Non appena formulato questo pensiero, subito volle tentare gli oracoli che vi erano in Grecia e quello di Libia, mandando degli incaricati, chi di qua, chi di là: alcuni a Delfi, altri ad Aba, nella Focide, altri ancora a Dodona. Alcuni furono pure mandati al santuario di Anfiatao e a quello di Trofonio; altri nel territorio di Mileto presso i Branchidi: questi gli oracoli greci che Creso mandò ad interrogare. Altri incaricati furono mandati in Libia, a consultare Ammone.

Creso ve li mandava volendo mettere alla prova quello che sapevano gli oracoli; con l’intenzione, poi, se constatava che conoscevano la verità, di mandare una seconda ambasceria a chiedere se poteva accingersi ad una spedizione militare contro i Persiani.

NOTA: Si parla di un mondo antico: da una parte la pietas di Creso, che perdona l’uccisore del suo figlio più caro, dall’altra il vero dolore e il senso dell’onore dell’uccisore, che decide di immolarsi coram populo sul tumulo della vittima; e poi il profondo senso del divino e del magico, il volere degli dei e il responso degli oracoli, senza la voce dei quali nessun re si sente sicuro nel muoversi. Gli dei avevano i loro oracoli, ognuno dei quali fondava il proprio auspicio su determinati eventi e su particolari fenomeni della natura, e in Epiro ve ne era uno dedicato a Zeus, i cui sacerdoti traevano il responso dallo stormire delle sacre foglie della quercia.

§ 17

47 Le istruzioni impartite ai Lidi che mandava a tentare gli oracoli erano queste: a cominciare dal momento della loro partenza da Sardi, dovevano tener conto, in seguito, dei giorni che passavano, e al centesimo giorno presentarsi agli oracoli, ponendo loro questa domanda: <che sta facendo ora il re dei Lidi, Creso, figlio di Aliatte? >Tutto ciò che ciascun oracolo avrebbe vaticinato, dovevano trascriverlo e riportarlo a lui.

Quali risposte abbiano dato gli altri oracoli, nessuno ce lo dice; ma a Delfi, non appena i Lidi furono entrati all’interno del tempio per consultare il dio ed ebbero formulato la domanda che era stata loro prescritta, la Pizia in versi esametri si espresse così: <Io conosco il numero dei grani di sabbia e le dimensioni del mare, io intendo il sordo-muto e odo la voce di colui che non parla. Ai mei sensi è giunto l’odore di una testuggine dal duro guscio, che sta bollendo nel rame con carni di agello; rame è sotto di essa disteso e di rame è rivestita.>

48 Dato che ebbe la Pizia questo responso, i Lidi lo trascrissero e se ne tornarono indietro a Sardi; e quando anche gli altri che erano stati mandati in giro furono presenti, portando i loro vaticini, allora Creso aprendo gli scritti ad uno ad uno, li esaminava attentamente.

Orbene degli altri nessuno gli piaceva; ma quando sentì quello riportato da Delfi, subito si mise in preghiera, riconoscendone l’esattezza, e fu convinto che l’oracolo di Delfi era l‘unico veramente tale, poiché aveva scoperto quello che egli stesso aveva fatto.

In verità, dopo che egli aveva mandato i suoi incaricati ai vari templi, atteso il giorno che s’era convenuto, escogitò una trovata del genere: pensata una cosa che fosse impossibile indovinare o anche supporre, tagliati a pezzi una testuggine e un agnello, li mise a bollire egli stesso in un recipiente di rame, ponendovi sopra un coperchio, esso pure di rame.

49 Tale fu, dunque, la risposta che venne a Creso da Delfi; per quel che riguarda il vaticinio dell’oracolo di Anfiarao, non saprei dire che cosa esso abbia risposto ai Lidi, dopo che essi ebbero compiuto nel sacro recinto le cerimonie d’uso (poiché nemmeno questo responso ci viene tramandato); niente altro posso dire se non che Creso fu convinto che anch’esso possedeva un oracolo veritiero.

50 Dopo queste prove Creso cercava di placare il dio di Delfi con splendidi sacrifici: immolò 3000 capi di bestiame di ogni specie indicata per i sacrifici; eretto un enorme rogo, vi bruciò sopra letti rivestiti d’oro e d’argento, e coppe d’oro e vesti di porpora e tuniche, nella speranza di assicurarsi di più con queste offerte il favore del dio: mentre a tutti i Lidi ordinò che sacrificasse ognuno ciò che poteva.

Compiuti che ebbe questi sacrifici, fece fondere una enorme quantità d’oro e formarne dei mezzi mattoni, che misuravano sei palmi nella parte più lunga, tre in quella più breve e un palmo di spessore: erano 117 di numero, di cui quattro d’oro puro, che pesavano ciascuno due talenti e mezzo; gli altri mattoni erano di oro bianco, del peso di due talenti.

Fece fare, inoltre, in oro puro, una statua di leone che pesava dieci talenti: questo leone, quando il tempio di Delfi andò in fiamme, cadde dai mezzi mattoni sui quali era stato collocato; ora si trova nel tesoro dei Corinzi e pesa sei talenti e mezzo; perché tre talenti e mezzo d’oro andarono fusi.

Nota: E’ del tutto lontana dalla nostra mentalità l’idea di sacrificare al dio animali sgozzandoli, o bruciare oggetti preziosi e vesti raffinate e costose. Però qualcosa è rimasto: l’agnello dedicato alla Pasqua, gli ex voto per ottenere un beneficio o per un beneficio ottenuto, donazioni di oggetti importanti a Santa Madre Chiesa, la costruzione di un’edicola e la sua dedica a Gesù, a Maria o a un Santo. E’ una tradizione religiosa che non si è mai interrotta. Due esempi: il conte Mainardo nel secolo X donò al prete Alberto in vocabolo Piobbico, sopra Sarnano, una superficie di terra tra due rivi perché vi costruisse una chiesa; l’Imperatore Costantino nel IV secolo fece la famosa donazione che dette inizio al potere temporale dei Papi. Ognuno di essi lo fece per la salvezza della propria anima secondo le proprie possibilità. Per quanto riguarda i mattoni di Creso, l’uomo del tempo più ricco della terra, erano lingotti enormi, se si pensa che un palmo corrispondeva a otto centimetri e il talento pesava 26 chili. Il Leone d’oro, dedicato alla Pizia, pesava quindi 260 chili.

§ 18

51 Quando questi oggetti furono pronti, Creso li mandò a Delfi e vi aggiunse queste altre offerte: due crateri di grandi dimensioni, uno d’oro e l’altro d’argento; quello d’oro si trovava a destra a chi entrava nel tempio, quello d’argento a sinistra.

Anche questi crateri furono rimossi al tempo dell’incendio del tempio; ora quello d’oro si trova nel tesoro dei Clauzomenii e pesa otto talenti e mezzo, più di dodici mine; quello d’argento è all’angolo del pronao e può contenere 600 anfore. Lo si sa perché i Delfi vi mescolano l’acqua e il vino nelle feste delle Teofanie.

A Delfi dicono che sia opera di Teodoro di Samo, e io lo credo, perché non ha certo l’aria di essere un lavoro del primo venuto.

Creso mandò anche quattro giare d’argento, che si trovano attualmente nel tesoro dei Corinzi; e consacrò due urne lustrali, una d‘oro e l’altra d’argento: su quella d’oro una iscrizione pretende che si tratti di un ex voto degli Spartani; ma non corrisponde a verità, poiché anche questa è di Creso: l’iscrizione vi fu posta da uno di Delfi che voleva ingraziarsi gli Spartani, io ne conosco il nome ma non lo dirò.

E’ vero invece che la statua del fanciullo, attraverso la cui mano scorre l’acqua, è degli Spartani; ma nessuna delle due urne appartiene a loro.

Molte altre offerte, senza iscrizioni, mandò Creso oltre e queste, e vasi d’argento rotondi, e una statua di donna in oro, alta tre cubiti, che a Delfi sostengono rappresenti la sua fornaia.

In più egli consacrò pure le collane della propria moglie e le sue cinture.

52 Tutto questo fu quello che mandò a Delfi; ad Anfiarao invece, del quale aveva conosciuto il merito e la fine dolorosa, consacrò uno scudo in ogni parte egualmente d’oro e una solida lancia d’oro massiccio, tanto l’asta quanto le due punte.

I due oggetti ancora ai miei giorni si trovavano a Tebe, e precisamente nel tempio di Tebe sacro ad Apollo Ismenio.

53 Ai Lidi incaricati diportare questi doni ai vari templi Creso ordinò di chiedere agli oracoli se egli avesse potuto fare una spedizione contro i Persiani e se avesse dovuto cercare di aggregarsi un esercito alleato.

Quando, arrivati là dove erano stati mandati, i Lidi ebbero consacrate le loro offerte, consultarono gli oracoli dicendo: < Creso, re dei Lidi, e di altri popoli avendo riconosciuto che questi sono i soli veri oracoli al mondo, vi offre doni degni della vostra intelligenza e domanda se può muovere in armi contro i Persiani e se deve aggregarsi qualche esercito alleato >.

Questo essi domandarono e le risposte di ambedue gli oracoli furono concordi nel predire a Creso che se avesse fatto guerra ai Persiani avrebbe abbattuto un grande impero; e gli consigliarono di assicurarsi l’amicizia fra quelli tra i greci che egli avesse riconosciuto come i più potenti.

54 Creso, quando venne a conoscere i responsi che gli erano stati riferiti, si rallegrò oltremodo per quello che dicevano gli oracoli e, pieno di speranza di poter abbattere il dominio di Ciro, mandò di nuovo i suoi messi a Pito, e fece dono ai Delfi, dopo essersi informato del loro numero, di due stateri d’oro a testa. In cambio i Delfi concessero a Creso e ai Lidi la precedenza nel consultare l’oracolo, la esenzione da certe tasse, il diritto ai primi posti nei giochi Pitici e la possibilità, per quelli che volevano, di assumere la cittadinanza di Delfi senza limiti di tempo.

NOTA: Prima di tutto vediamo come Creso, rimasto nella storia l’uomo emblema della ricchezza, abbia fatto agli oracoli doni enormi e senza risparmio, nel desiderio e nella speranza di avere responsi a proprio favore, e per questo prediligeva il tempio di Delfi dove la Pitia per lui sentenziava, almeno in apparenza, in modo positivo. Per il valore dei suoi doni Creso ebbe benefici fiscali dalla città di Delfi e posti di riguardo negli spettacoli, meccanismo che ancora oggi funziona. ll tempio fu incendiato nel 548 a.C. e la sua ricostruzione fu compiuta il 430 a.C.. Per dare una idea della consistenza dei doni di Creso Annibaletto ricorda che la mina attica pesava circa 436 grammi e l’anfora, come misura, conteneva circa 40 litri; per quanto riguarda il cubito misurava circa m. 0,43, e dalle pitture vascolari del secolo VI a.C. vediamo che le lance avevano una punta ad ogni estremità. Alla fornaia fu dedicata la statua d’oro perché – annota ancora Annibaletto – da Plutarco sappiamo che, incaricata dalla matrigna di Creso di preparargli il pane avvelenato, lo aveva avvertito, salvandogli così la vita.

§ 19

55 Dopo aver mandato i suoi doni a Delfi, Creso volle consultare il dio per la terza volta, poiché da quando aveva riconosciuto la veridicità dell’oracolo, vi ricorreva senza moderazione.

Nella consultazione egli chiedeva questo: se la sua monarchia sarebbe stata di lunga durata. La Pizia gli diede questa risposta:

< Quando un mulo diventerà re dei Medi, allora, o Lidio, dai delicati piedi, fuggi lungo l’Ermo sassoso; non ti fermare e non aver vergogna di esser pavido>

56 Quando gli giunse questa risposta Creso si rallegrò più che per qualsiasi altra cosa, convinto che giammai un mulo al posto di un uomo potesse salire sul trono dei Medi e che, quindi, egli e i suoi discendenti non avrebbero mai cessato di regnare.

In seguito, si diede cura di cercare quali fossero i più potenti dei Greci, per farseli amici e, cercando, trovava che Spartani e Ateniesi si distinguevano fra gli altri: i primi nella stirpe dorica, i secondi in quella Ionica.

Avevano, infatti, il predominio questi due popoli, ed erano uno di origine pelasgica (gli ateniesi), l’altro di origine greca. Il primo non si spostò mai dal suo paese, l’altro invece fece parecchie migrazioni. Al tempo del re Deucalione abitava la regione Ftiotide; sotto Doro, figlio di Elleno, il paese che si stende sotto l’Ossa e l’Olimpo, e che si chiama Istiotide; scacciato dall’Istiotide ad opera dei Cadmei, abitò in Pindo con il nome di Macedno; di là, poi, con un nuovo spostamento, passò nella Driopide; e quando dalla Driopide scese nel Peloponneso, fu chiamato popolo Dorico.

57 Quale lingua parlassero i Pelasgi non saprei dirlo con esattezza; ma se si deve trattarne, argomentandolo da quelli che ancora rimangono dei Pelasgi che, sopra i Tirreni, abitano la città di  Crotone ed erano un tempo vicini a quelli che ora si chiamano Dori (abitavano allora il paese che ora è chiamato Tessagliotide) e di quei Pelasgi che, sull’Ellesponto, colonizzarono le città di Placia e Scilace e abitarono insieme agli Ateniesi, e da tutte quelle città che erano pelasgiche e poi cambiarono nome, se si deve dunque parlarne basandosi su queste congetture, i Pelasgi parlavano una lingua barbara. E se tale era la condizione di tutta la schiatta Pelasgica, il popolo Ateniese, che ad essa apparteneva, quando passò fra i Greci, dovette anche imparare un’altra lingua.

Infatti, neppure gli abitanti di Crotone hanno comunanza di lingua, con quelli che ora stanno loro intorno, e così quelli di Placia, che parlano come i Crotonisti, e danno in tal modo dimostrazione che essi conservano gelosamente quella particolare lingua che portarono con sé quando trasmigrarono nelle attuali loro sedi.

58 A quanto mi risulta il popolo greco, da quando si venne costituendo, sempre e costantemente usa la stessa lingua.

Staccatosi, debole ancora, dal ceppo Pelasgico, partendo da umili origini, si venne ampliando fino all’agglomerato attuale di popoli, essendosi ad esso accostate, di preferenza, molte popolazioni Pelasgiche e numerosi altri Barbari.

In confronto a questo, dunque, mi pare che nessun altro popolo di Pelasgi, essendo barbaro, abbia fatto mai così vasti progressi.

NOTA: In questi capitoletti Erodoto abbandona Creso (per poi ritornarci) e si dilunga in un complicato resoconto sulle origini e sulla lingua degli ateniesi e dei greci ad essi oggetti, tutti accomunati dalla  provenienza Pelasgica, una provenienza da schiatta barbara, dalla cui cultura a poco a poco progredendo si staccarono, mantenendone però – gelosamente scrive Erodoto – la lingua. Ma il fatto più importante, riferito nella narrazione di oggi è questo: Creso non capì il responso della Pizia sul mulo che avrebbe governato i Medi. Infatti la Pizia non intendeva riferirsi ad un vero mulo, ma alle origine di Ciro, figlio di una principessa e di un uomo di povera condizione, e quindi di sangue misto come il mulo animale, figlio di un asino stallone e di una giumenta di cavallo; e Creso, come vedremo, pagò molto cara questa distorta interpretazione. Per quanto poi riguarda l’esclamazione della Pizia <o Lidio dai delicati piedi> essa si riferisce al fatto che, secondo la proverbiale al tempo mollezza dei Lidi, furono i primi ad indossare i calzari

§ 20

59 Di questi due popoli dunque Creso veniva a sapere che quello di Atene era tenuto schiavo e diviso da Pisistrato, figlio di Ippocrate, che in questo tempo era tiranno degli Ateniesi.

Infatti a Ippocrate, che era un semplice cittadino privato e assisteva alle celebrazioni di Olimpia, era accaduto un fatto prodigioso: dopo che egli aveva compiuto il sacrificio le caldaie, ritte accanto a lui, piene di carni e d‘acqua, si misero a bollire e a traboccare.

Lo spartano Chilone, che si trovava presente ed aveva osservato il prodigio, diede a Ippocrate questi consigli: in primo luogo non portarsi in casa una moglie che potesse aver figli; in secondo luogo se già ne aveva una ripudiarla, e se aveva qualche figlio rinnegarlo.

Ma, a questi suggerimenti di Chilone, Ippocrate, dicono, non volle prestar fede ; e in seguito gli nacque questo Pisistrato di cui si parla il quale, approfittando che gli Ateniesi della costa erano in discordia con quelli della pianura (capo dei primi era Megaclo, figlio di Alcmeone, e di quelli della pianura Licurgo figlio di Aristolaide), e mirando quindi al dominio assoluto, diede vita ad un terzo partito: raccolti quindi, dei partigiani e facendosi, a parole, capo degli uomini dei monti, ricorse a questo strattagemma: dopo essersi ferito da solo e aver ferito le mule, spinse il carro nella piazza del mercato, come se fosse sfuggito ai nemici che, mentre egli si recava nei campi, avrebbero voluto ucciderlo.                                                                                                                    

Chiedeva perciò, al popolo, di ottenere un corpo di guardia, egli che, già prima, s’era particolarmente distinto nella campagna contro i Megaresi, avendovi conquistato Nisea e compiuto altre valorose imprese.

Il popolo di Atene, lasciatosi ingannare, gli concesse di scegliersi fra i cittadini 300 uomini che furono non già i portatori di lancia di Pisistrato ma, piuttosto, portatori di clava, perché lo scortavano seguendolo armati di clave di legno.

Costoro, sollevatisi insieme a Pisistrato, si impadronirono dell’Acropoli.

Da quel momento Pisistrato fu signore di Atene, senza turbare le magistrature che c’erano, né modificare le leggi; ma con le istituzioni vigenti governò la città, amministrandola in modo eccellente.

NOTA: Chilone era uno dei 7 sapienti della Grecia (evidentemente era anche in grado di predire il futuro), a lui tutti prestavano fede, salvo Ippocrate che non se ne curò, ed avvenne ciò che avvenne. Ci troviamo ancora di fronte alla mentalità di un mondo semplice e antico, tra credenze, oracoli e sapienti che indirizzano (o dovrebbero indirizzare) sulla giusta via il modo di fare degli uomini, una specie di saggia coscienza collettiva. Per quanto concerne gli screzi fra Ateniesi, annota Annibaletto che gli abitanti della costa erano, precipuamente, mercanti e pescatori, quelli della pianura, tra le colline e il mare, ricchi e nobili, mentre quelli dei monti erano molto poveri. Il colpo di stato di Pisistrato fece leva su tale povertà, come sempre succede quando si accendono tensioni, sollevazioni e rivoluzioni. Ma per fortuna Pisistrato governò – riferisce Erodoto – in modo eccellente.

§ 21

60 Dopo poco tempo però i partigiani di Megacle e quelli di Licurgo, messisi d’accordo, lo scacciarono. E fu così che Pisistrato ebbe in mano Atene per la prima volta e, quando ancora non erano salde le radici del suo potere, lo perdette.

Sennonché quelli che avevano scacciato Pisistrato vennero ancora di bel nuovo in lotta fra loro, e Megacle, disgustato del suo partito, mandò un araldo a Pisistrato a chiedergli se accettava sua figlia come moglie, e avere a questo patto la tirannia.

Avendo Pisistrato accolto la proposta e accettato queste condizioni, ricorsero per il ritorno dell’esule a un artificio che io trovo di gran lunga il più sciocco del mondo (dato che, fin da antico, il popolo greco fu giudicato più accorto del popolo barbaro e più lontano da ogni stolta dabbenaggine), se è vero che, allora, questi uomini tra gli ateniesi che avevano fama di essere primi tra i greci per intelligenza, immaginarono una simile commedia.

C’era nel demo di Peania una donna di nome Fia che aveva una statura di tre dita inferiore ai quattro cubiti, e per il resto era bella.

Avendo rivestita questa donna di una armatura completa e fattala salire su di un cocchio, dopo averle mostrato quale atteggiamento doveva assumere per mostrarsi nel modo più dignitoso possibile, la condussero in città.

Intanto, mandarono innanzi a preparare il cammino degli araldi i quali, giunti in città, proclamavano ciò che era stato loro comandato di dire esprimendosi in tal modo: < O Ateniesi accogliete di buon animo Pisistrato  che Atena in persona, avendolo stimato più di tutti gli uomini, riconduce alla propria acropoli>.

Questo andavano dicendo, aggirandosi qua e là; e ben presto si sparse per i borghi di campagna la notizia che Atena riconduceva Pisistrato, e gli abitanti della città, convinti che quella donna fosse la dea in persona, adorarono la creatura umana e accolsero Pisistrato.

61 Salito al potere nel modo che si è detto Pisistrato, secondo l’accordo convenuto con Megacle, ne sposò la figlia; ma siccome egli aveva già dei figli adulti e gli Alcmeonidi avevano fama di essere maledetti, non desiderando che dalla nuova sposa gli venisse della prole, si univa ad essa contro natura.

In principio la donna tenne nascosto a tutti questo particolare; ma poi, ne fosse stata interrogata o meno, ne parlò alla propria madre e questa al marito.

Megacle fu preso da vivissimo risentimento per l’ingiuria che da Pisistrato gli veniva fatta e, accecato com’era dall’ira, fece tacere il rancore verso quelli del suo partito.

Informato di quanto si tramava ai suoi danni Pisistrato si allontanò con tutti i suoi dal paese; e, ritiratosi ad Eretria, tenne consiglio con i suoi figli.

Essendosi poi imposta l’opinione di Ippia che si dovesse riconquistare il potere, si diedero a raccogliere doni da quelle città che, già da tempo, avevano degli obblighi verso di loro.

Molte città fornirono notevoli contributi, ma i Tebani superarono tutti per la generosità delle offerte.

In seguito, per dirla in breve, trascorse del tempo, e tutto era pronto per il loro ritorno.

Dal Peloponneso infatti vennero dei mercenari di Argo; e un uomo di Nasso, il cui nome era Ligdami, venuto da loro spontaneamente, offriva alla causa uno zelo straordinario, e inoltre aveva portato denaro e uomini.

NOTA: Erodoto narra la storia di Fia come storia sciocca, ma alla fine conclude che gli ateniesi, secondo ui i piu accorti tra i greci, avevano creduto che fosse la dea Atena scesa in terra. Quattro cubiti di altezza meno tre dita sono pari a m. 1,75, e cioè Fia era una donna molto alta per il suo tempo: per il resto era bella, conclude Erodoto, e cioè l’altezza della donna a quel tempo non era apprezzata. Pisistrato aveva già avuto due mogli e quattro figli, e dopo essersi con poco riguardo ben servito della figlia di Megacle (cui Erodoto non da nemmeno un nome), lesto l’ abbandona per riparare ad Eretria con i figli. Eretria era nell’isola di Eubea e Ippia era il maggiore dei suoi figli, colui che era destinato a succedergli.

§ 22

62 Muovendo da Eretria, nell’undicesimo anno dl loro bando, presero la via del ritorno, e la prima località dell’Attica che occuparono, fu Maratona.

Mentre erano accampati in questo luogo, accorsero i loro partigiani dalla città ed altri affluivano dai borghi della campagna: quelli cui la tirannia era più gradita della libertà.

Costoro, dunque, si andavano radunando. Intanto i cittadini di Atene, finché Pisistrato raccoglieva denari e anche quando ebbe conquistato Maratona, non se ne davano alcun pensiero; ma quando vennero a sapere che da Maratona egli marciava sopra la città, allora finalmente mossero in armi contro di lui.

E mentre costoro, con tutte le loro forze, avanzavano verso gli esuli che ritornavano, anche Pisistrato, con le sue truppe, partito da Maratona, si accostava alla città; sicché venendosi incontro, arrivarono al tempio di Atena, nel demo di Pallene, e posero il campo l’uno di fronte all’ altro.

A questo punto, spinto da divina ispirazione, si accostò a Pisistrato un indovino, Anfilito di Acarnania, il quale, avvicinandosi a lui, pronunciò in esametri questo oracolo: < il lancio è stato fatto; la rete si è spiegata; i tonni vi si precipiteranno durante la notte, al chiaro di luna >.

63 Questo l’oracolo che egli profferì con voce divina; e Pisistrato, comprendendone il significato, disse di accogliere l’augurio e fece avanzare l’esercito.

Proprio allora gli ateniesi venuti dalla città erano intenti a prendere il rancio e alcuni di essi, dopo aver mangiato, si davano chi al gioco dei dadi, chi al sonno. Sicché le truppe di Pisistrato, piombando loro addosso all’improvviso, li volsero in fuga.

Mentre essi fuggivano Pisistrato prese una decisione molto saggia, per impedire che gli Ateniesi si riunissero ancora e per tenerli, invece, dispersi: fatti montare in sella i suoi figlioli li mandò innanzi, ed essi, man mano che raggiungevano i fuggitivi, dicevano loro quello che aveva ordinato Pisistrato, invitandoli a non aver paura e a tornarsene ciascuno ai propri affari.

64 E siccome gli Ateniesi si lasciavano persuadere, Pisistrato, avuta in mano per la terza volta la città di Atene, vi radicò saldamente il suo potere, appoggiato da molte milizie ausiliarie e mezzi finanziari che provenivano in parte dall’Attica stessa, in parte dal fiume Strimone; prese come ostaggi i figli di quegli ateniesi che avevano opposto resistenza senza darsi subito alla fuga, e li fece stabilire a Nasso (c’è da dire che anche questa città Pisistrato aveva conquistata con le armi e l’aveva, poi, affidata da governare a Ligdami): oltre a ciò, procedette alla purificazione dell’isola di Delo seguendo la volontà degli oracoli, e la purificò in questo modo: fin dove poteva spingersi la vista del santuario di Apollo, fatti disseppellire da tutta questa zona i morti, li fece trasportare in altro luogo dell’isola di Delo.

Così Pisistrato fu signore di Atene, mentre degli Ateniesi, parte erano caduti nella battaglia, e parte, insieme con gli Alcmeonidi, andarono esuli dalla loro Patria.

NOTA: La storia continua, Creso per muovere guerra a Ciro non si rivolse alla Atene di Pisistrato, prendendo invece alleanza con Sparta, città tradizionalmente più votata alla guerra. La guerra contro Ciro fu persa, e vale la pena trascrivere ciò che un saggio di Lidia di nome Sandani, ebbe a consigliare a Creso prima che la iniziasse: < O re, tu ti prepari a muovere guerra contro uomini che portano pantaloni di cuoio e di cuoio anche il resto del vestito, che mangiano non quello che vogliono ma quello che hanno, poiché il loro paese è pietroso. Uomini che non bevono vino ma acqua, che non hanno fichi da mangiare né alcun’altra cosa buona. Orbene se tu sarai vincitore che cosa toglierai a loro, a gente che non ha niente? Se, invece, tu rimarrai vinto, considera quanti vantaggi perderai>. Pur dicendo così non riuscì a dissuadere Creso.

Propongo ora ai lettori di lasciare Creso al suo destino e di fare un salto di mille anni, andando a visitare con Procopio di Cesarea, autore degli a volte perfidi Anecdota (noti come Storie Segrete o Storie Arcane), la Bisanzio/Costantinopoli di Giustiniano e Teodora del VI secolo D.C.